L’atto di compravendita di uno schiavo nella Sicilia del XIV secolo.

Storia Medievale – Nuove Edizioni Bohémien – Lo Speciale di Dicembre 2013

A cura di Marcello Proietto

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Il 14 marzo del 1347 nel centro urbano di Siracusa, il magister Iacopo de Romano, davanti al notaio Angerio de Balena[1], vendeva un servo di nome Dimitri a Pietro[2] de Colloridi[3] di Lentini. Dimitri ha appena dieci anni ed il notaio specifica che è originario della Romania, cioè proveniente dall’Impero d’Oriente. Il servo è venduto al prezzo di undici augustali e mezzo, specificando il valore della moneta in quel tempo «imperrialibus et karlensibus argenti ana sexaginta per unciam computatis»[4].

In Sicilia, la vendita degli schiavi si effettua ad usum ferae e ad usum machazenorum[5]. Nel primo caso, a modu di fera, cioè nei pubblici mercati, il venditore non era responsabile dei vizi e dei difetti occulti o manifesti dello schiavo; nel secondo, ad usum machazeni, cioè nei serragli di schiavi, invece, il compratore si riservava un certo numero di mali e vizi. Al manifestarsi di questi vizi il compratore poteva intentare, nei termini della legge, un’azione redibitoria.

L’atto di presenta spoglio di clausole circostanziate, spiccano soltanto le dichiarazioni di garanzia per l’evizione e le clausole penali.

Alla stipula del contratto il servo non presenta nessun vizio o difetto possibile ed immaginabile «vicio caduco et non mingendo lecto»[6]. Per consuetudine, i vizi e i morbi riscontrati nel soggetto venduto producevano, di pieno diritto, la rescissione del contratto. Dalle clausole negoziali dell’atto di compravendita risaliamo alla tipologia contrattuale della vendita ad usum machazenorum. Il notaio imperiale, Angerio de Balena, probabilmente non era al corrente, oppure non ha voluto applicare la normativa regia sugli schiavi di Romania, per cui utilizza formulari più antichi, tipici della vendita di schiavi.

Il morbo caduco, «il mal caduco, morbo sontico, cioè l’epilessia era il più temuto, e di esso, in primo luogo, tacevasi quasi ordinariamente espressa riserva nei contratti»[7].

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Per quanto riguarda al fatto di orinare nel letto, secondo la dottrina siciliana, si «ammette la restituzione se trattasi di difetto della vescica, ma se l’orinare nel letto capiti non trattandosi di male fisico, la restituzione non può aver luogo»[8]. Secondo le disposizioni consuetudinarie di Marsala, Matteo Gaudioso ricorda che, trascorsi i quaranta giorni, non è ammessa azione redibitoria[9]. «Secondo la Consuetudine di Palermo l’animale morboso e vizioso deve essere restituito entro quaranta giorni dal giorno di vendita. Ciò si intende anche per i servi. Trascorso tale termine, secondo il testo, il venditore non è tenuto alla restituzione del prezzo né a riprendere l’animale o servo già venduto»[10]. In molti contratti di vendita di schiavi stipulati a Palermo nel secolo XIV è stabilito per l’azione redibitoria un periodo di sei mesi[11].

L’azione redibitoria non è solamente personale, ma può essere trasmessa agli eredi del compratore, anche contro i successori del venditore.

Numerosi in Sicilia, in quel secolo, erano gli schiavi, in prevalenza saraceni. Ad essi si aggiunsero, nel 1304, i cosiddetti schiavi di Romania che «Bozzo ritiene che siano stati gli infelici strappati a quella parte dell’antico impero bizantino che, conquistato nel 1204 dai guerrieri della IV crociata, fu detto impero latino di Costantinopoli o di Romania»[12].

L’importanza in Sicilia di questi schiavi è dovuta esclusivamente ai milites della Gran Compagnia, «Nell’autunno del 1303 la Gran Compagnia, trovatasi in Romania ai servizi dell’imperatore Andronico II, conquistò con celerità quella triste fama che ne fece il terrore di tutto Oriente per quella ingordigia di bottino che fu per quei mercenari il principale incentivo alle crudeltà. Caccia preferita, gli schiavi, che essi si procacciavano in tutti modi, o per fatti di guerra o con scorrerie, pretendendo persino impadronirsi, oltre che degli averi, anche delle persone di quegli stessi greci di Romania che essi avevano obbligato di difendere dai turchi»[13]. Si ritiene che il numero degli schiavi greci di Romania importati in Sicilia superasse quello degli schiavi saraceni. Infatti, intorno al 1308 i mari di Romania ricominciavano ad essere percorsi dalle navi di guerra siciliane, che vi si recavano allo scopo di riprendere contatto con la Gran Compagnia che riversava in Sicilia buona parte degli schiavi.

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Del settembre 1358 si ricorda la feroce incursione condotta da quattro galee catalane in partibus Romanie. La rappresaglia avvenne in una cittadina della regione orientale e la gente catturata fu condotta a Catania per essere venduta[14].

Numerosi sono gli atti di compravendita e manomissione che riguardano servi greci di Romania ed ogni volta viene detto espressamente il luogo di provenienza: sono servi bianchi, olivastri e neri. In prevalenza infedeli, pochissimi i battezzati.

Non è esistita località in Sicilia dove non esistessero schiavi in numero proporzionale al numero di abitanti. I possessori erano aristocratici, ecclesiastici, mercanti, grossi e piccoli borghesi.

Gli schiavi neri in Sicilia erano numerosissimi, specialmente, come dice Matteo Gaudioso, nella seconda metà del secolo XV, provenienti da Tripoli e Tunisi[15].

Nella legislazione del 1310 di Federico II si accenna, per la prima volta, ai precetti ed alle norme sul trattamento morale degli schiavi. La legislazione federiciana si preoccupa soprattutto del trattamento di quegli schiavi cristiani o prossimi a ricevere il battesimo. Professare le pratiche della religione natia costituiva un reato per i saraceni, per gli ebrei e per gli stessi greci di Romania[16]. Il re Federico fece compilare una legislazione ad Arnaldo de Vilanova per regolare la condizione degli schiavi. Al capitolo sessanta si legge che «l’Apostolo dice che il servo dopo il battesimo come fratello carissimo e non come servo deve essere trattato»[17]. Ma non per questo motivo il servo deve dimenticare il suo passato servile, anzi, deve servire con più fedeltà, come esplica il capitolo sessantuno della Consuetudine. Tutta la legislazione federiciana è ispirata alla dottrina morale delle lettere apostoliche.

La dominica potestas era l’insieme dei poteri nelle mani del dominus nei confronti degli schiavi. Lo schiavo essendo una res mancipi poteva essere liberamente venduto, donato, dato in prestito: era trattato come un generico oggetto di merce. La protezione dello schiavo contro sevizie e maltrattamenti da parte dei padroni è sancita nel capitolo sessantadue nelle Consuetudini da re Federico[18]. Il capitolo enuncia che se il servo fosse stato cristiano poteva essere difeso dal maltrattamento del padrone, in caso contrario poteva subire qualsiasi maltrattamento[19]. Questo concetto guasta il contenuto del capitolo assecondando comportamenti attigui al fanatismo cristiano.

I servi vengono elencati negli inventari di beni frammisti agli animali da soma e di armento.

«Lo schiavo domestico, in Sicilia, come in ogni luogo, non è soggetto di diritti, ma obbietto. Tale fu il criterio dominante nell’isola per tutto il tempo dell’esistenza della schiavitù»[20]. Gli schiavi del secolo XIV godevano di un trattamento morale migliore rispetto agli schiavi dell’epoca romana, ma venivano sempre paragonati alla res.

Fra le attività negate agli schiavi figurava la preclusione ai lavori di concetto e burocratici.

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A proposito del matrimonio e dei diritti di famiglia, lo schiavo poteva contrarre matrimonio con una serva ma, giuridicamente, non era un’unione tutelata dal diritto. I giuristi, in tal senso affermavano che due schiavi potevano unirsi secondo lo jus naturale, solo perché in possesso di una personalità.

Avvenuta la manomissione lo schiavo diventava libero, senza alcun vincolo di soggezione. Nella pratica rimaneva sempre obbligato al jus patronato.

[1347], marzo 15, indizione XV, Siracusa[21]

Il magister Iacopo de Romano, cittadino di Siracusa, vende a Pietro de Colloridi di Lentini un servo greco di nome Dimitri di anni dieci, al prezzo di undici e mezzo augustali.

Originale [A]. ASS, III Raccolte e Miscellanee, perg. 90 di mm 280 x 162. La lettera I iniziale è dell’altezza di mm 113 corrispondenti a 19 righi del testo.

In nomine Domini amen. Anno dominice incarnacionis millesimo trecentesimo quadragesimo sexto mense / marcii quinto decimo eiusdem quinte decime indicionis regnante serenissimo domino domino nostro rege Lodo/vico Dei gracia inclito rege Sicilie felicis dominii regni sui anno quinto. Feliciter, amen. Coram / nobis Iohanne Navarra iudici civitatis Syracusie, notario Angerio de Balena imperiali autori tate ubique / notario et iudice ordinario ac regio puplico tabellione civitatis eiusdem et testi bus subscriptis ad hoc vocati / specialiter et rogatis magister Iacobus de Romano civis Syracusie non vi set sponte vendidit alienavit / et per manum corpolariter tradidit et assignavit Petro de Colloriti de Lentino grecum / unum de parti bus Romanie ortum anno rum fere decem nomine Dimitri pro augustalibus auri undecim / et dimidio ponderis generalis quos agustales auri undecim et dimidium ad dictum pondus prefatus / venditor presencialiter recepit et integre habuit ab eodem emptore ex causa vendicionis ipsius / imperrialibus et karlensibus argenti ana sexaginta per unciam computatis ab omni quoque calup/nianti persona dictum grecum venditum defendere discalupniari disbrigare et autorizzare / promisit dictus venditor emptor predicto et volens exinde de vicio morbo caduco et de non min/gendo lecto et de evicione teneri et in nullo contrafacere vel venire predictis vel aliquibus predictorum aliqua / racione vel causa sub pena dupli predicte pecunie quantitatis regie curie si contra predicta fecerat exol/[vere michi instanter] predicto notario penam ipsam pro parte ipsius curie sollemniter et legitime stipulanti a dicto venditore / per solleone stipulacionem promissa qua pena soluta vel non presens contractus in suo robore / perseveret et teneri sibi ad omne dapnum litis expensas et interesse proinde factis in curia et extra curiam / faciendum sibi integre restituire si contra predicta fecerit vel aliquod predictorum sub ypotheca omnium honorum / suorum presencium et futuro rum renuncians dictus venditor de sua certa consciencia ratifficari denunciandum / privilegio fori beneficio legis si convenerit autem excepcioni doli mali metus incidentis in [contractu] vel dantis / causami psi contractui et generaliter omnibus aliis legibus iuribus usibus constitucionibus foro privilegio [………….] / et fenus quibus ad versus predicta vel aliquod predictorum se tueri posset modo aliquo vel iuvare. Unde ad / futuram memoriam et predicti emptoris cautelam presens puplicum instrumentum exinde factum est per manus mei / predicti notarii puplici nostrum qui supra iudicis notarii et subscriptorum testium subscripcionibus signo et testimonio roboratum. / Actum Syracusie anno die mense et indicione premissis.

+ Ego Iohannes Navarra iudex Syracusye.

+ Ego notarius Iohannes de Bonafide testor.

+ Ego Andreas Manchinus testor.

+ Ego Guillelmus de Saraceno testor.

+ Ego Petrus Manchinus testor.

+ Ego notarius Angerius de Balena qui supra imperiali autori tate ubique notarius et iudex ordinarius ac regius / puplicus tabellio civitatis Syracusie predictis omnibus rogatus interfui scripsi predicta et meo signo signavi. S.T.

                                                                                                     

Archivio di Stato di Siracusa, III Raccolte e Miscellanee, perg. 90

particolare del protocollo


[1] Nel 1408 un Giovanni Balena deve un servizio alla curia per il feudo Benalii sito presso Siracusa (Gregorio, Biblioteca scriptorum, II, 478).

[2] Figlio di Giovanni Colloridi e Venezia dei Gangemi di Vizzini. Giovanni detta il suo testamento nel 1344 (Archivio di Stato di Siracusa, III Raccolte e Miscellanee, perg. 23; M. Proietto, Una famiglia di una “quasi città” siciliana. I Colloridi a Lentini (secolo XIV), tesi di laurea, Catania, A.A. 2006-2007) al  notaio Orazio de Bonaccorsi, e nomina erede universale di tutti i suoi beni mobili ed immobili il figlio Pietro.

[3] Il termine Colloridi ci rinvia a ‘collura’, termine usato nelle principali province siciliane, derivante dal greco tardo, che sta a significare ‘forma di pane’ e dal greco medievale ‘impasto, pasta’. In siciliano la ‘coddura’ è termine che identifica il pane a ciambella, filone di pane o focaccia; G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, I, Centro Studi Filologici e Linguistici siciliani, Palermo, 1993, ad vocem.

[4] Infra documento, righi 8-9.

[5] M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia dopo i Normanni. Legislazione, dottrina, formule, Maimone Editore, Catania, 1992, p. 87.

[6] Infra, documento, rigo 13.

[7] M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia…, ct., p. 89.

[8] M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia…,cit, p. 90.

[9] Ivi, p. 93.

[10] Ivi, pp. 94-97.

[11] Ivi, p. 98

[12] Ivi, p. 27.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 28.

[15] M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia…, cit., p. 32.

[16] I capp. 72 e 73: Testa, Capitula Regni Siciliae, I, pp. 77-78; M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia…, cit.,

pp. 44-48.

[17] M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia…, cit., p. 43.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, p. 52

[20] Ivi, p. 59.

[21] Trascrizione pubblicata su Ad trinam pulsacionem campanelle. Il Tabulario dei monasteri di Santa Chiara e della Santa Trinità in Lentini, Mostra documentaria, Noto, 16 giugno-16 luglio 2007, Palazzo Impellizzeri, (a cura di Clara Biondi e Henri Bresc), Officina di Studi Medievali, Palermo, 2007, p. 130.