RACCONTI: IL CAMPANILE

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Racconti

IL CAMPANILE

di Antonino Leotta

C’erano tre piccoli laghi in Val Venosta: il Lago di Resia e quello di Curon vicini e, poco distante, il Lago di San Valentino alla Muta.

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L’abbondanza d’acqua spinse la “Montecatini” a chiedere -nel 1920- di utilizzare il sito per produrre energia idroelettrica. Passarono trenta anni e nel 1950 venne realizzato il progetto con la costruzione di una diga. Un progetto per un servizio pubblico. Ma quel progetto costò a circa duecento famiglie la espropriazione di case e terreni. Dicono che le lacrime degli abitanti avrebbero potuto dare vita ad un altro lago. Scomparve l’antico Comune di Curon Venosta e una parte del territorio di Resia che vennero, in parte, ricostruiti sulla collina sovrastante.
Ma, in quella amara circostanza, la Sovraintendenza si oppose alla demolizione di un edificio che rimase come il simbolo di una comunità: la Chiesa di Santa Caterina. Perciò, il campanile riuscì a mantenere la sua presenza e a restare, ancora oggi, sopra il livello delle acque.

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Nel mio itinerario di “ferie” estive, è entrato prepotentemente questo luogo piuttosto originale. Dico “prepotentemente” perché ci vogliono 77 kilometri, tra ripetute curve, per raggiungere il Passo di Resia da Merano. Ma quel campanile tra le acque, meritava di essere incontrato. Per aprire un dialogo di riflessioni.

L’ho guardato e ammirato. L’ho fotografato. Ho immaginato i momenti della lenta invasione delle acque pilotata dagli addetti ai lavori e subìta, come una pugnalata al cuore, dagli abitanti che erano nati, cresciuti e vissuti all’ombra di quel campanile.
Poi, dopo le prime istantanee impressioni, mi sono fermato a chiedermi: cos’è la Chiesa?
Non è certo un semplice edificio murario e non è nemmeno un simbolo.
Ce lo hanno spiegato i nostri catechisti negli incontri della “tuttìna” (dottrina cristiana) nel primo pomeriggio della domenica della mia infanzia. Quando non c’era dove andare e si frequentava il catechismo a cui faceva seguito una sequenza di giochi.
Eppure, l’insegnamento a proposito era molto chiaro: la Chiesa è la comunità dei battezzati.
Oggi sono oltre un miliardo e trecento milioni in tutto in mondo. Se si considera la presenza abitativa mondiale di sette miliardi e settecento milioni, i battezzati sono intorno al 17% della popolazione mondiale.

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Fa certo impressione un campanile circondato dalle acque. Ma dovrebbe fare molta più impressione un miliardo e trecento milioni di battezzati che si mostrano come isolati tra loro. Tanti campanili separati l’uno dall’altro. Ed è triste constatare come alcuni campanili preferiscono anche isolarsi dal resto del mondo. Non perché vittime di una emarginazione, ma perché -contrariamente alla loro funzione originaria- si auto-isolano, si autoescludono, si chiudono a riccio. Fanno quadrato. Prendono le distanze. Non intendono contaminarsi. Fanno “setta”.
La comunità cristiana non è e non può essere un’isola separata. La Chiesa-Comunità non nasce affatto come roccaforte. Come rifugio protetto. Come isola felice. Non può fermarsi a compiacersi della varietà dei propri riti. Non può escludere gli altri limitandosi a vivere una esperienza mistica. Deve scommettersi. Confrontarsi. Immergere i propri passi nel fango del cammino di una umanità che arranca. Perché il suo compito specifico è farsi sale e luce in mezzo alle vicende umane. Farsi lievito per servire la promozione di tutti gli altri.

Se ci facciamo caso, Cristo non rimase a dare spettacolo camminando sulle acque del Lago di Tiberiade (chiamato anche nei testi sacri lago di Genesaret e mar di Galilea). Continuò ad attraversare tutta la Galilea e poi la Samaria e la Giudea. Lasciando le sue orme su una terra abitata da persone avvolte nelle loro miserie e debolezze. Perché il suo posto era proprio tra i più deboli e gli esclusi.

Dinanzi a quel campanile immerso tra le acque, è scaturita silenziosamente una auto-interrogazione. Un auto-esame, una profonda riflessione sulle mie responsabilità di membro di una Comunità di battezzati.
Noi professiamo pubblicamente: “credo la Chiesa una”. Ma spesso non siamo “una” Chiesa. Siamo come tanti campanili isolati l’uno dall’altro.

Dinanzi a quel campanile circondato dalle acque ho capito che, talvolta, diamo l’impressione di essere degli auto-isolati. Perché tendiamo a creare spazi attorno a noi.
E la misura della presa di distanza è inconfondibile: non riusciamo a perdonarci l’uno le debolezze dell’altro. Ci separano decisamente le acque dell’indifferenza, dell’invidia, dell’egoismo. E ci fa schifo la povertà degli altri. E siamo propensi a stabilire dei confini. Perché riteniamo l’auto-isolamento una sicurezza.

Perciò respingiamo ogni idea di uguaglianza. Ogni programma di unità.
E non riusciamo a percepire che il rifiuto dell’altro ci condanna a un triste e amaro isolamento.