AD ACIREALE, UN VERNISSAGE SU VIOLENZA E ABBANDONO

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Recensioni ed Eventi

A cura di Maria Cristina Torrisi
Storie di violenza e di abbandono” è il tema quanto mai attuale di una cruda realtà denunciata attraverso l’evento che, organizzato dal Rotaract Club di Acireale, si terrà domenica 22 ottobre, dalle ore 18 alle 22, nella sala Pinella Musmeci dell’ex angolo Paradiso di Acireale.

Si tratta di un Vernissage di 35 opere fotografiche a cura di Luisa Trovato, Giusy Spoto, Giuseppe Martinico, Nathalia Leotta e Anna La Rocca, amici appassionati di fotografia che esporranno i loro lavori per fare riflettere sulle complicanze relazionali allorché si affacciano brutalmente episodi di violenza e di abbandono.

I loro lavori parlano chiaro e manifestano il dolore, il senso di vuoto e prigionia e la carica brutale che si incamera quando si subiscono maltrattamenti non solo fisici ma anche psichici. All’unisono i 5 fotografi si collaborano, si amalgamano con lo stesso linguaggio ma ognuno con la propria tecnica e visione. L’obiettivo è sempre quello: la denuncia.

Luisa Trovato affronta, in maniera cruenta e quanto più realistica possibile, il fenomeno del femminicidio. La Trovato esprime l’orrore di una violenza esasperata. Il lavoro è carico di un senso artistico rilevante. Dal buio, dal nero, ecco sbucare l’unica figura che interessa all’osservatore. E’ lei, la donna minacciata di morte, dal volto tumefatto e dagli occhi solcati dal pianto e dal sangue pesto. Rivolge il suo sguardo lì dove il suo carnefice la direziona mentre è succube del volere del compagno che le provoca violenza. Pugni chiusi di lei in una lotta senza futuro, voglia di difendersi e di fuggire; pugni chiusi di lui per indurre alla forza, alla sudditanza e alla fine. Le ferite del corpo e dell’anima sono scrupolosamente esaltate dal rosso scarlatto della tunica indossata dalla donna, sopra una fascia sporca di sangue divenuta un tutt’uno col corpo martorizzato; un messaggio immediato che sa di sopraffazione e di sangue.

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Nel suo abbandono, gli occhi persi di una bambina dietro le sbarre, grigie e corrose da un tempo indefinito, ma limitato da uno spazio carcerario, non sono di smarrimento ma di richiesta d’aiuto. Affondano nello sguardo dell’osservatore quasi con rabbia, senza rassegnazione, ma carichi di un giudizio che annichilisce. “Perché mi trovo qui?”, sembra voler dire nella sua richiesta d’aiuto. “Io sono fatta per la vita e non per la morte”. Eccola la creatura che non sa spiegarsi il motivo del suo abbandono, col suo vestitino azzurro che, con tenerezza e al tempo stesso prepotenza, risalta fuori dalle ombre nere di una passato doloroso. Dietro di lei un’altra figura, seminascosta, alla ricerca della luce, della verità, e forse anche dell’amore. La realtà è riportata in maniera disarmante e la fotografia diventa testimonianza di vita vera e vissuta attraverso la potenza delle immagini.

 

La donna rappresentata da Giuseppe Martinico come vittima di femmincidio  sembra essere già morta. Nel suo volto, stranamente fresco e dotato di una bellezza angelica, vi è lo sfregio di una crudeltà silente nonostante il sangue  visibile materialmente nel collo. La vittima è in una posizione atipica di preghiera in cui, con una rosa in mano, “osserva chi la osserva” e denuncia con uno sguardo ormai travolto dall’implacabile sofferenza.

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Anche Giuseppe Martinico presenta l’abbandono di una bambina ma piuttosto che dietro le sbarre avvolta da una coperta che nasconde il dolore e la paura in un volto seminascosto. Foto in bianco e nero che regala tutta la drammaticità dello scatto, in una realtà che sa anche di guerra, di fame e di una vita di stenti.

 

La violenza proposta da Nathalie Leotta è più interiorizzata attraverso uno specchio. Che riproduce la sagoma fisica del martirio ricevuto sia nel corpo che nell’anima. La testa della donna è riversa sullo specchio buio, contenitore di memorie e di tragicità. Contenitore di un confronto diretto di ciò che è accaduto. La camicia bianca è volutamente esaltata per far emergere la luce dal buio. Lo stesso che si riflette nell’immagine della disperazione. Le mani appoggiate hanno i contorni del rosso ma ciò che risalta palesamente è la dimensione delle stesse, allungate dopo lo scivolamento del sangue.

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Riguardo all’abbandono, invece, è quello di una piccola alunna che mostra tutta la sua rassegnazione su un tavolo da studio, sola e assuefatta ad una vita che non merita di avere. Colpisce l’ambiente circostante, fatiscente nonostante si tratti di contesti educativi. Però fuori dalla finestra il barlume di speranza è data dalla luce e dai colorati palloncini che invitano al cambiamento ed alla vita.
Giusy Spoto, nel suo lavoro sulla violenza, incarna la brutalità attraverso un’ immagine spietata di cruda realtà che vede una donna morire per soffocamento. Morire senza poter parlare perché la mano del suo uomo le tappa la bocca. Una donna le cui mani tendono alla difesa ma che è tuttavia impedita nella lotta a causa della forza ingombrante dell’uomo e di una massa che la imprigiona dentro una presa di sangue e violenza. La donna è già imbalsamata. La donna non può far più nulla. E’ lì, immobile, col suo aguzzino dietro, “ombra nell’ombra”.

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Nella sua descrizione di abbandono, Giusy Spoto immortala un bimbo che  è dentro un contesto di sogno in cui, attraverso un disegno, esprime il desiderio di famiglia in un giorno soleggiato. Ma il bimbo si trova in mezzo alla strada, a dover fare i conti con la brutalità immane della realtà che si scontra con il suo sogno. E allora ecco che non gli rimane altro da fare che dormire, chiudere gli occhi, nella speranza che dal suo sogno matite colorate possano cambiare la realtà della sua esistenza.

Un’atra immagine forte è quella proposta da Anna La Rocca. Una donna col cappio rosso al collo e con le spalle rivolte al suo osservatore lancia il messaggio della “morte dentro”. La morte dell’anima, la morte della dignità di essere nata donna, la morte dell’essere umano che non conoscerà mai i propri diritti alla vita e all’amore. E’ una immagine che toglie il fiato. Lei seduta su una sedia. Lei compita. Lei che non lotta. Assuefatta alla sua condizione mentre lui le solleva con la mano il cappio. Il carnefice che si è impadronito di una vita che non gli appartiene. Il nudo confonde. Attorno al nero, il corpo sa di essenziale. E l’essenza ha tutto il sapore della tragedia.

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Nel suo abbandono, Anna La Rocca punta molto sull’attesa. L’attesa di due bambine che guardano all’esterno, in un grigio giardino in bianco e nero che promette solo desolazione. Non sembrano bambini mal curati nell’aspetto fisico quanto piuttosto feriti nell’animo mosso dal desiderio di credere che qualcuno giungerà per loro.