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Dunkirk – Recensione

A cura di Federica Rizzo

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A 47 anni, dopo tanti film spettacolari con cui ha conquistato il mercato americano e il pubblico di tutto il mondo, Christopher Nolan decide di cimentarsi con il genere bellico, raccontando, in Dunkirk, la storia dell’Operazione Dynamo, un fatto di storia realmente accaduto, avvenuto nel maggio del 1940, in piena Seconda Guerra Mondiale, in cui l’esercito britannico evacuò quasi 300mila uomini, grazie anche all’aiuto dei civili, giunti in massa con imbarcazioni private per riportare a casa i propri figli.
Imprigionando i suoi protagonisti in una striscia di terra tra mare e cielo, in cui il nemico è una presenza senza volto e l’unico valore rimasto la sopravvivenza a ogni costo, Nolan racconta la sua storia tramite una geniale narrazione non lineare divisa in tre sotto-storie intersecate tra loro. Nei cieli Farrier (Tom Hardy) e la sua squadriglia di caccia Spitfire, pronti a offrire supporto aereo alle imbarcazioni impegnate nel trasporto dei sopravvissuti; sulla spiaggia Tommy (Fionn Whitehead), resiliente soldato semplice in cerca di un passaggio verso la salvezza; nelle acque, a concludere le prospettive di Dunkirk, si destreggia tra le onde l’imbarcazione del signor Dawson, un semplice marinaio.
Adattando alla tematica della guerra il tema costante della sua filmografia: il valore del tempo – scelta assolutamente azzeccata proprio perché diventa parte integrante della narrazione, essendo suddivisa e disposta su ben tre piani temporali, costituiti dal molo, il mare e il cielo, che coprono un lasso temporale rispettivamente di una settimana, un giorno e un’ora – il regista fa susseguire gli eventi in un continuo incrociarsi tra di loro ogni volta che i differenti piani entrano in collisione, creando una soluzione narrativa forse non innovativa, ma resa sullo schermo nella migliore delle modalità. Dunkirk è un’esperienza immediata di orrore di guerra, che getta lo spettatore così vividamente nelle immagini, a dir poco evocative sia per merito della perizia dietro la macchina da presa di Nolan, che dello straordinario talento del direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema, il quale, prediligendo colori fortemente asettici, con tinte grigiaste, dipinge un vero e proprio scenario di morte e sterilità che è difficile da respingere.
Dunkirk non ha temi epici, bensì una colonna sonora onnipresente ma discreta, per tenere incollato lo spettatore alla sedia, con un rumore di fondo che dona l’impressione di essere sempre sul punto di esplodere. Il ticchettio ricorrente di un orologio tattile che mostra un pericolo imminente, il tempo che si esaurisce, funziona meravigliosamente e quando la croce finale squilla, si rimane a ricordare i milioni di altri di cui le storie non hanno mai concluso. Frammentando il racconto in tanti volti, ognuno con lo stesso peso, il regista inglese costruisce un’unica grande e disperata corsa alla sopravvivenza, in cui ognuno vive la sua lotta personale contro la morte imminente e le proprie scelte, unica forma di libertà concessa all’uomo, da cui dipende non solo la propria vita fisica, ma soprattutto quella interiore.