SOLIDARIETA’ E PARTECIPAZIONE NEL PRESTIGIOSO CONVEGNO SUL FEMMINICIDIO

A cura di Maria Pia Basso

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“La scuola come alveo naturale dove i sentimenti devono attecchire”. Con queste parole il prof. Biasco, dirigente scolastico del liceo scientifico “Archimede” di Acireale, avvia l’importante convegno, tenutosi ieri sera, 26 Novembre 2013,  nell’aula magna dell’istituto, dal titolo: “Le radici culturali del femminicidio”. Tema di grande impatto sociale dato il dilagare di omicidi perpetrati a danno delle donne; solo in Italia, dall’inizio dell’anno ad oggi, ben 128. Si è cercato di illustrare il fondamento di tali delitti; le origini e le pulsioni psicologiche che li originano.

L’incontro, organizzato dal Movimento ecclesiale e di impegno culturale Acireale e dai laboratori del Meic, è stato introdotto dalla dottoressa Maria Pia Fontana, sociologa e assistente sociale, la quale ha posto l’accento sulla necessità di salvaguardare l’identità soggettiva della donna che deve estrinsecarsi nell’affermazione di sé come di essere dotato di individualità che non va segregata poiché “tutto ciò che incarcera l’identità di una persona è violenza. E la violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci.” Da qui la necessità di “combattere gli stereotipi” e tutto ciò che induce alla mercificazione del corpo della donna, privo di bellezza poiché – continua la dott.ssa Fontana – “non è abitato dal pensiero”. Il pensiero corre alla necessità di nutrirsi dell’autostima, come di quell’alimento che, rinvigorendo il senso di sé, aiuta a volersi bene, ad accettars, e ad opporsi con fermezza a tutti quei tentativi di prevaricazione che fanno breccia in animi fragili e inclini ad una non accettazione e ad una non percezione della propria persona.

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Questi atteggiamenti, su cui suggerisce di soffermarsi la professoressa Luisa Mirone, “limitano l’identità di una persona, sopprimendola”; uccidono al pari di un vero e proprio atto fisico con cui si toglie la vita alla propria vittima. Ma quali sono i mezzi per contrastare un fenomeno tanto insidioso che pare abbia origine sin dai tempi più remoti quando la donna veniva relegata in un cantuccio per evitare che potesse prendere il sopravvento sull’uomo? In prima battuta, per rifarci al pensiero del magistrato Marisa Scavo, sarebbe auspicabile “avvicinare i giovani al fenomeno, al fine di portare ad una rivoluzione culturale” perché da questa bisognerebbe partire per ribaltare le sorti della piaga dilagante dei molteplici delitti efferati che si compiono a ritmo serrato.

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Dell’insufficiente rivoluzione culturale fino ad ora attuata, recita un “ mea culpa” Don Vittorio Rocca, parroco della chiesa di Sant’Antonio Abate di Aci Sant’Antonio il quale evidenzia come la chiesa cattolica “non l’abbia favorita, consentendo ancora che la donna sia sottomessa” e, nello stesso tempo, auspica il rinvenimento del concetto di “persona”, né uomo né donna, da inserire “nella ricostruzione di un tessuto sociale, così come fece Gesù che, in barba alla concezione del tempo, parla con le donne” e le accoglie, le considera. Anche i cristiani, afferma il prof. Toscano, a capo del Maic, “non devono guardare al mondo impigrendosi nella massa, ma far sì che “passione, tenerezza, intelligenza ci consentano di aprire i nostri orizzonti”, accostandoci al tema oggetto del dibattito, “con la volontà di “riscrivere la grammatica delle relazioni affettive”, la cui incomprensione ingenera convincimenti errati che conducono al compimento di violenze inenarrabili. Dello stesso avviso lo psichiatra Antonino Salerno che, facendo una disamina da un punto di vista maggiormente inerente alla risonanza del problema sull’animo umano, evidenzia come “non esistono nella violenza domestica problematiche patologiche, ma ci si trova davanti a persone che non sanno mettersi in relazione”. E ancora: a soggetti che vivono “un alto grado di conflittualità nella famiglia di origine e nella propria.” Ma non possiamo “fermarci ad un’affettività legata a relazioni incomplete”, per cui occorre porre delle regole che le disciplinino e le rendano comprensibili. La relazione sentimentale non è relazione di potere e l’amore non costringe, ma lascia liberi nel rispetto dell’individualità dei suoi protagonisti; fino a quando “non ci si vuole bene, finché non si acquisisce questa consapevolezza”, le donne vittime di tanto odio, “ non andranno avanti” , sostiene Suor Rosalba La Pegna che da più di venti anni si occupa di accogliere ed accudire mamme e figli in grosse difficoltà, prestando la propria opera presso la comunità Madonna di Cristo. E ciò che è ancor peggio, come è stato da più parti evidenziato, è che la donna mutilata nella sua integrità morale, oltre che fisica, purché cessi la vessazione di cui è vittima, è disposta a perdonare il suo carnefice, tentando di restaurare il rapporto antecedente alle violenze. Non vuole o non vorrebbe denunciarlo; si accontenta anche di una semplice promessa con cui si pone fine agli orrori subiti. Per cui è determinante anche “porre azioni di recupero nei confronti del soggetto maltrattante”, come sottolineato dalla dottoressa Marisa Scavo, in linea con i Trattati internazionali che segnalano questa necessità, al fine di evitare che questi possa reiterare atteggiamenti e comportamenti lesivi che la donna tende ad archiviare, mediante il perdono.

IMG_1452In forza di “una dipendenza affettiva ed emotiva – osserva la giornalista e scrittrice, nonché direttrice del nostro giornale, Maria Cristina Torrisi – da cui è difficile affrancarsi. La protagonista della sua ultima fatica letteraria, “Prigioniera”, non riesce “a distaccarsi dall’uomo che è il suo potenziale assassino, ma annienta la propria libertà di pensiero, di parola, psicologica, diventando prigioniera di se stessa”. L’autrice mette in luce, inoltre, anche la necessità che “la scrittura diventi la chiave di accesso per far conoscere lì dove, invece, si lavora per nascondere” e il suo romanzo diventa il modo per evidenziare la verità, sia pure attraverso “eleganti parole” dentro uno scritto che denuncia un fenomeno ingiustificabile che solo in una sana revisione introspettiva di ciascuno di noi, uomini o donne non fa differenza, potrebbe trovare la chiave di volta per tentare di essere contrastato efficacemente. 1069268_10201423484257408_1169949751_n

Ma non chiamiamolo più “femminicidio” ove con il termine “femmina” si rischia di restringere l’umanità dei soggetti cui ci si riferisce all’aspetto ferino condiviso con le specie non umane. Potrebbe essere un’ulteriore tentativo di rivalutare la donna vittima di tanta deprecabile violenza: chissà.