RECENSIONI ED EVENTI
A cura di Simonpietro Spina
Il semaforo come crocevia di esistenze irrisolte. Maria Cristina Torrisi costruisce un romanzo corale intessuto di fili e nodi che danno vita a micro-trame brulicanti di umanità, storie che pulsano di vita propria e pulsando animano la trama collettiva che tiene insieme quest’opera di rara sensibilità, in cui si avverte tutto il temperamento sincero e gentile dell’autrice.

Un’opera dalle spiccate atmosfere oniriche che si fa seduta di psicanalisi freudiana e prova a indagare i più fini ingranaggi della mente, dai piccoli vizi del quotidiano (ne sono esempi l’evasione attraverso il fumo o l’ossessione per la notifica digitale, compulsioni che l’autrice brevemente tratteggia assegnandole a figuranti di passaggio), fino a costruzioni più elaborate, conflitti interiori e autentici drammi. Un’elencazione esaustiva sarebbe impossibile, perché la fantasia fervida dell’autrice espande la casistica pagina dopo pagina, senza mai accennare a stanchezza. Alcune fattispecie, tuttavia, emergono con più evidenza e le si può provare a mettere in fila: il desiderio di dar sfogo a una sessualità non binaria; il rifiuto del cibo quale soluzione a un’esteriorità che non soddisfa i canoni estetici del nostro tempo; la sofferenza che deriva da una relazione tossica e la gelosia che tracima in violenza; i matrimoni sbagliati; gli attriti in famiglia, i conflitti genitore-figlio, le ambizioni personali che si scontrano con le aspettative — le pretese — di chi ci ha messi al mondo; i ricordi d’infanzia, i tempi della scuola, le amicizie, gli amori, le delusioni; la depressione annegata nell’alcol; l’emarginazione che segue all’emigrazione; la malattia che affligge i corpi dei vivi; la perdita di un figlio in arrivo; il senso di vuoto dopo un evento luttuoso, il coma, la crudezza del sinistro stradale che cancella vite e accende il dolore in chi resta, mentre sull’asfalto imporporato giacciono i corpi di chi ci ha lasciati.
Le storie personali dei molti protagonisti di questa parabola moderna ci toccano da vicino, perché i prototipi d’ogni possibilità umana sono rappresentati e nessuno che vi si accosti può dirsi al sicuro da una qualche forma di identificazione, sia essa completa o anche solo parziale. Hypnose. Rosso, Astratto Paranoico è un’opera iperbolica e ambiziosa, moltiplicatrice d’esistenze, che si offre al lettore come un catalogo di umanità difficili, qualcosa che potremmo definire “catalogo dell’irrisolto”, perché c’è sempre, al fondo di ogni micro-vicenda narrata, la necessità di confrontarsi con le proprie speranze e fragilità, ciò che più di tutto ci rende carnosi e, in un’ultima analisi, umani.
L’ambientazione urbana, e ancor più la scelta del semaforo rosso come luogo d’elezione in cui dar vita alla storia e alle storie (al mosaico, cioè, e ai suoi tasselli), non può non riportare all’incipit del vertiginoso Cecità del portoghese José Saramago, possibile ma non esclusiva fonte d’ispirazione di Hypnose, che tuttavia si giova dell’espediente narrativo per altri scopi e attingendovi in maniera assai più cospicua. Precisazione pregnante e opportuna perché il semaforo, in Hypnose, non figura unicamente come scenografia di passaggio, ma assurge a camera confessionale, un limbo di attese (smisuratamente diluite grazie a un accorto rallentamento del tempo), nel corso del quale, al riparo degli abitacoli delle autovetture in coda, si dipana l’angoscia del vivere, nelle parole e nei pensieri — nei detti e nei non detti — dei suoi molti attori.


















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