A TU PER TU CON AURELIO GATTI

Aurelio_Gatti_

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Archeologia e Dintorni

A cura di Clara Artale

 

Loggione. Davanti, la meraviglia della porpora e dell’oro. Sui miei occhi, un danzare aggraziato, dipinto. Mi siedo ormai a provini quasi ultimati, ma in tempo per poter dire di aver visto un grande professionista sotto un’altra veste. Ritto, sulle gambe. Una treccia argentea danza scomposta. Finiscono le audizioni per Spartacus al Garibaldi di Avola, dove il maestro Aurelio Gatti si sarebbe esibito qualche ora dopo nello spettacolo “Geometrie della Passione”. Il Direttore Artistico del Teatro, Tatiana Alescio, mi presenta a Gatti. Inizia la nostra lunga intervista. Il curriculum del grande regista, per brevità chiamato artista, è infinito e di elevatissimo livello; gli studi classici e la dedizione per la recitazione e la danza hanno costruito la sua carriera con pietre solide ed eleganti insieme. Il Maestro risponde con animo illuminato a tutte le mie domande. La mia prima frase è “Mi presento, sono un’archeologa”. Mi dice “wow”; comprendo che son partita col piede giusto.

«Io seguo il progetto i Teatri di Pietra; serve affinché i siti archeologici diventino altare di ogni argomento che si ritenga contemporaneo. I miti non sono temi che uno frequenta, ma la sede di un pensiero che non c’entra nulla con la moda o l’azione. Io credo che sia, soprattutto per la Sicilia, una questione d’identità. Noi abbiamo il patrimonio che è il Mediterraneo, ma è un mediterraneo allargato che risente delle suggestioni asiatiche, africane. Leggere il contemporaneo attraverso il mito è un’esigenza; è come se non si potessero trovare parole migliori per descrivere il καιρός, il tempo sfuggente. Quando mi dicono “perché frequenta il mito?” io rispondo perché è identità; ognuno dovrebbe conoscere la storia, non si può occultare. Dovrebbe riconoscerla. Il mito non va contestualizzato, non va modernizzato; è una natura primordiale dell’uomo, dell’idea se è un’idea. È lì, esiste, o come memoria o come stimolo, che è una ricerca della propria memoria, un archetipo. Non deve divenire però un impostura; può accadere se se ne fa un abuso. Il problema della rilettura è questo; a volte il ‘900 si è interessato a decontestualizzare i personaggi: Antigone, per esempio, brilla in virtù di un ambito che non può non tener conto della presenza di Creonte. Oggi abbiamo la strumentalizzazione del mito. Non si rendono conto che addomesticano la divinità: Dio, Buddha non sono domesticabili. Trasferito nel mondo del teatro, operare questa trasposizione equivale a fare un’opera pessima. Uno va a Selinunte e vede un tempio; ma no è vero che c’è un tempio, è stato ricostruito. Io non sono per il non ricostruire, ma bisogna capire e non creare idoli. Non devi addomesticare il mito, non bisogna strumentalizzarlo.  Ma come per le tavole delle Madonne russe non puoi prescindere dai chiaroscuri delle cappelle dove dovrebbero stare, nel caso del Mito, il contesto nasce come dialogo tra due grandi blocchi, dall’interloquire del coro con il protagonista. C’è interazione ed è venuto meno questo nella trattazione del mito moderno. Così come le Madonne in un museo, tutte in fila, sono belle, ma sembrano seriali, il mito non si frequenta, si vive; non può essere un concetto da usare, citare o abusare. Nel caso di Pavese, “Dialoghi con Leucò”, non ti chiedi se è il mito vero; in quel momento è un incanto straordinario che è l’essere del mito. Questo è il mito; altrimenti è racconto.»

Chiedo di Irene Papas, attrice greca che adoro; il Maestro Gatti ha lavorato con lei. «Io ho colto una Papas recente; lei è un archetipo, perché ha dato volto a Penelope, Elettra, Medea. Nell’immaginario documentato, cinematografico, la figura di Irene primeggia. Io credo che i suoi tratti rappresentino la durezza, la profondità dello sguardo, la virilità dell’essere donna. Se c’è questo archetipo della donna del mediterraneo, lei lo racchiude; non ne ha solo la determinazione, ma soprattutto la visione. Lavorando con Irene io le dicevo “andiamo da questa parte?”. Lei diceva “Fammi vedere; è quello che volevo, ma forse c’è dell’altro…” Ecco: il lavoro con Irene racchiudeva quell’altro. Anche in scena, parlavamo sempre di quell’altro. Con l’INDA nel 2005 abbiamo realizzato “Antigone”, con la regia di Irene Papas. Quando si provava, arrivava Irene, smontava tutto e lo faceva diventate un action. Il lamento di Ecuba, è quella la vita. Chissà come erano gli occhi di Medea, si potrebbe pensare. Ma non importa niente; è fidarsi che quel significato è racchiuso negli occhi cha hai davanti; poi chiedi come si chiama la donna che porta quegli occhi e ti risponde Irene Papas.»

Prima di concludere l’intervista chiedo cosa sognava da bambino, in che modo osservava il mondo. «Io ho sempre pensato che avrei fatto l’uomo per davvero. Non ho mai racchiuso il mio operato in un’etichetta: per 12 anni ho dipinto, mi sono specializzato in scenografia e arti, ma non ho mai pensato che volevo fare il pittore o l’interprete. Quest’idea viene da una grande donna, arcaica, che frequentava la mia famiglia e che diceva che la gente deve solo capire se vuole far finta di vivere o vivere per davvero. Quindi capii che era importante non cosa volevo fare, ma cosa volevo essere. E volevo essere ciò che credevo che lei intuisse come buon uomo. Io non capivo, ma volevo essere attraverso la sua visione; lo descriveva molto bene che mi era chiarissimo, non so perché. Uno dei due modi di sentire che descriveva era molto bello e non potevo permettermi per stanchezza di non raggiungerlo. Lei lo aveva visto quel non essere un uomo per davvero e doveva essere terribile. Era solo la cosa più naturale per essere vicino a quell’ideale, seguitare a essere un uomo per davvero. Mi auguro di non avere mai la sensazione di raggiungerlo, significherebbe fermarsi. L’importante non è raggiungere il proprio sogno, ma averne sempre uno. Avere chiaro che il sogno non è il percorso, ma avere le visioni inclusive, altrimenti sono ambizioni e sono esclusive. Mi chiedono “Maestro, cosa vuole fare?” Tutti, è la mia risposta; ovvero non c’è un lavoro migliore di un altro, perché quando lo farò incontrerò uomini, donne e sarà un’esperienza straordinaria. “Ma quale sente più sulle sue corde?”Ancora una volta la risposta è tutte. Se le chiedessero “Qual è il punto più bello del panorama” dovrebbe rispondere “la magnificenza dell’insieme, altrimenti si chiamerebbe particolare”.»

Termina lo straordinario momento che mi ha portato ad ascoltare parole libere, vere, condite da un sapere sterminato. Mi allontano dal Teatro consapevole che il mio animo si è arricchito enormemente. Grazie Maestro.