Imago Urbis: una ricca esposizione di disegni, incisioni e carte di Catania dal XVII al XIX secolo.

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Attualità/Cultura

A cura di Dario Stazzone

Inaugurazione della mostra "Imago Urbis" al Castello Ursino, luglio 2015

Inaugurazione della mostra “Imago Urbis” al Castello Ursino, luglio 2015

I musei italiani nascondono spesso nei depositi opere di notevole valore o documenti tutt’altro che trascurabili. Capita talvolta che magazzini ricchi di opere d’arte vengano aperti al pubblico e si rivelino un “museo nel museo” persino più esteso delle collezioni permanenti; accade anche che ci si proponga di scandagliare quei depositi per individuare opere poco note che disegnino un percorso tematico utile allo studioso e piacevole per il visitatore. È questo l’intento con cui è stata selezionata la raccolta Imago Urbis: disegni, incisioni, carte di Catania dal XVII al XIX secolo, ospitata all’ultimo piano del Castello Ursino dal luglio del 2015. Nel maniero svevo sede del Museo Civico catanese è possibile osservare una successione di immagini, dipinti, incisioni e piante che restituiscono l’immagine cangiante della città etnea, dal Seicento che fu epoca tormentata di terremoti ed eruzioni, all’Ottocento romantico e neoclassicista.

    Il lavoro appassionato dei funzionari del Museo Civico e dell’Assessorato alla Cultura, la cura scientifica di chi scrive hanno permesso di rintracciare e selezionare una notevole quantità di documenti figurativi, operando la ricognizione e lo studio del materiale che troverà anch’esso collocazione nelle collezioni permanenti.

 Fantasia architettonica di Giambattista Vaccarini, 1757

Fantasia architettonica di Giambattista Vaccarini, 1757

Catania tra XVI e XVII secolo

All’inizio del percorso si è scelto di esporre una riproduzione secentesca della celebre mappa-veduta a volo d’uccello Braün-Hogenberg rappresentante una Catania ancora caratterizzata dalla planimetria medievale, chiusa nelle mura e nei bastioni. Si tratta di una riproduzione della mappa incisa ad Amsterdam nel 1598 e posta a corredo del quinto volume del Civitates orbis terrarum, la più importante laudatio che la cartografia cinquecentesca abbia concesso alla città dell’Etna.[1] Di essa colpiscono l’attenzione minuziosa conferita sia ai dettagli urbani che al territorio circostante, l’evidenza data ai monumenti antichi che assolvono ad una fondamentale funzione identitaria (in particolare l’anfiteatro, il teatro, l’odeon, le terme della Rotonda e i resti della naumachia), l’enfasi posta sulle fortificazioni e sul Castello Ursino che, non ancora circondato dalle lave del 1693, appare caratterizzato da un deciso slancio verticale. La città è dominata dalla mole fumante dell’Etna. Il rilievo conferito al vulcano non è casuale: esso è il «catasto magico» di cui ha parlato Maria Corti,[2] il luogo mitico che da sempre ha suscitato curiosità nelle élites colte europee. Se nel 1598 Catania appare nel monumentale atlante Braün-Hogenberg ciò si deve, con molta probabilità, alla fama universale dell’Etna.

    Il percorso espositivo è concluso, con voluta circolarità, dalla poco nota riproduzione dell’affresco della Sagrestia della Cattedrale catanese che Carmelo Comes ha realizzato nel 1952. L’affresco conservato al Duomo è una preziosa testimonianza dell’eruzione del 1669 che ha lambito Catania, il convento dei Benedettini e lo stesso Castello Ursino, riversandosi in mare e modificando persino l’orografia del golfo antistante.[3] È da rilevare che i recenti restauri dell’antico affresco attribuito a Giacinto Platania, testimone oculare della distruttiva eruzione, hanno messo in evidenza un’accesa policromia che Comes aveva già intuito sotto la patina del tempo, rappresentandola nella sua tela attraverso una successione di scarti coloristici che definiscono l’ampio fronte lavico, il mare, le architetture cittadine e il bosco etneo.

Carta topografica di Catania di Sebastiano Ittar;

Carta topografica di Catania di Sebastiano Ittar;

Il cantiere settecentesco, le opere di Vaccarini e Ittar

    Tra la mappa e il dipinto riproducenti la città tardo-cinquecentesca e quella secentesca si scorgono alcuni disegni settecenteschi e ottocenteschi che sono tra le opere più interessanti in esposizione: si tratta di vedute o fantasie vergate dagli architetti che hanno avuto un ruolo essenziale nella ricostruzione della città dopo il terremoto del 1693, Stefano Ittar, il figlio Sebastiano e Giovanni Battista Vaccarini.[4] Degli Ittar colpiscono le riproduzioni architettoniche di edifici cittadini antichi e moderni, come la quattrocentesca Cappella Paternò di Santa Maria di Gesù, il prospetto e il campanile tortile della Collegiata, la facciata dei Minoriti e il portale svevo di Sant’Agata al Carcere. È come osservare il retroterra colto da cui sarebbe scaturito il peculiare idioma architettonico del Settecento catanese. L’interesse degli Ittar per la Cappella Paternò e per la sua monofora dicroma, ad esempio, non è casuale: di essa l’architetto polacco si era ricordato realizzando l’Arco Ferdinandeo, ovvero l’attuale Porta Garibaldi, che alterna fasce di pietra lavica a fasce di pietra calcarea (ma prima di lui l’uso coloristico dei materiali lapidei era stato introdotto in città da Vaccarini per la decorazione di villa Ermosa e della sua raccolta abitazione alla Civita). Nelle rappresentazioni della Cappella Paternò è di forte interesse documentario la presenza del busto del patrizio Alvaro Paternò che si scorge all’interno di una nicchia, definita da un arco a tutto sesto anch’esso dicromo. Quella statua, probabile opera gaginiana, menzionata dal principe di Biscari nel suo Viaggio per tutte le antichità di Sicilia e dal Rasà Napoli nella sua Guida delle chiese di Catania, fu asportata nel 1877: di essa, purtroppo, si è persa ogni traccia.[5] Non appare casuale neppure l’attenzione che queste grafiche riservano all’antico portale svevo della Cattedrale, ricostruito pezzo per pezzo dal Vaccarini e collocato nel prospetto di una delle più importanti chiese agatine che fu eretta, secondo tradizione, nel luogo stesso di carcerazione della santa patrona. Eccezionale è la presenza di una Fantasia architettonica vaccariniana, un prezioso disegno datato e firmato che rappresenta un tempietto circolare in cui, dal timpano spezzato alle incensiere, dalle balaustre alla rotazione del piedritto, è possibile riscontrare tutti gli stilemi del massimo protagonista della ricostruzione catanese, in grado di rielaborare con raffinatezza le suggestioni del grande barocco romano. In effetti, pensando all’organizzazione planimetrica con cui Catania è risorta dopo il sisma del 1693, alla sua capacità di valorizzare il paesaggio circostante (la palazzata marittima, la grande via che inquadra l’Etna, l’Arco Ferdinandeo eretto nella zona liminare tra la città e la Piana), al suo idioma architettonico d’ispirazione borrominiana in asse con le principali esperienze europee del tempo, si comprende bene l’affermazione di Gesualdo Bufalino secondo cui, nonostante lutti e distruzioni, bisognerebbe benedire quel terremoto che determinò, nella Sicilia Orientale, una vera e propria palingenesi urbanistica ed architettonica.

Veduta di fantasia dell'anfiteatro di Catania di Jean Houel

Veduta di fantasia dell’anfiteatro di Catania di Jean Houel

Progetti per la città ottocentesca

Notevoli sono anche i piccoli disegni di Sebastiano Ittar, figlio di Stefano, che riproducono piazza San Filippo (l’odierna piazza Mazzini), una veduta del porto di Catania col faro, piazza Duomo, piazza Università e il progetto classicista di un monumento circolare. Sebastiano, attivo a Catania, ebbe un ruolo fondamentale nel diffondervi la cultura neoclassica testimoniata da diversi progetti, molti dei quali non realizzati. Tra essi si scorgono i fogli dedicati al completamento ed al decoro del Collegio Cutelli con splendide grottesche policrome e i disegni del Teatro Comunale. Venne invece realizzato lo scalone monumentale che dà accesso alle sale di rappresentanza del Palazzo degli Elefanti, sede del municipio catanese. L’Ittar fu un ottimo incisore, esponente di quella scuola catanese che dal XVIII secolo antiquario giunge ai vertici del XIX secolo rappresentati dai ritratti di Francesco Di Bartolo e dai soggetti classicisti di Orazio Giammona: una ricchezza e un percorso variegato che attende ancora uno studio attento e organico. Notissime furono le incisioni dell’Ittar dedicate ai monumenti antichi di Catania, presenti in questa mostra: si tenga conto che lo stesso architetto accompagnò ad Atene Lord Elgin nel 1803 e provvide a realizzare dettagliate vedute del Partenone, dell’Acropoli e della capitale greca.

    Vero e proprio capolavoro dell’Ittar è la pianta di Catania cui lavorò con straordinario impegno e sacrificio dal 1806 fino all’incisione parigina nel 1833: le fanno da corona cinque vedute di piazze cittadine, quelle stesse che Luigi Mayer disegnò per Antonio Zacco nel 1780, e una ricca leggenda. La pluralità dei codici definisce un’opera fondamentale per la topografia catanese, un vero e proprio capolavoro (non solo) cartografico.[6]

Grand Tour d’Italie e cultura antiquaria tra XVIII e XIX secolo

    La raccolta rappresenta anche le incisioni poste a corredo dei principali testi di viaggio settecenteschi, in primo luogo le opere del Saint-Non e dell’Hoüel, e i dipinti di Luigi Mayer da ricondurre all’ambiente classicista che ruotava attorno al principe di Biscari. È risaputo che il Museum Biscarianum, una raccolta archeologica e naturalistica famosa in tutta Europa, ha avuto un ruolo essenziale nell’attirare a Catania una pletora di viaggiatori che iniziarono ad interessarsi alla città, ai suoi monumenti antichi, alla sua dignità architettonica, alle sue raccolte naturalistiche ed antiquarie senza concentrarsi esclusivamente sulla canonica ascesa dell’Etna. Anche questi documenti, dunque, nella loro visione erudita ed antiquaria, sono una preziosa testimonianza dell’imago urbis, una tappa essenziale della ricezione e proposizione dell’immagine di Catania al resto d’Europa tra il XVIII e il XIX secolo.

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[1] Cfr. E. Iachello, La città del vulcano: immagini di Catania, in AA. VV., Catania, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Domenico Sanfilippo Editore, Catania 2007, pp. 19-50.

[2] M. Corti, Catasto magico, Einaudi, Torino 1999.

[3] L’affresco della Sacrestia della Cattedrale catanese, poco noto ai catanesi stessi, è stato riprodotto da Federico De Roberto nella sua monografia dedicata a Catania, cfr. F. De Roberto, Catania, a cura di R. Galvagno e D. Stazzone, Papiro Editrice, Enna 1997, p. 67. Nel libro derobertiano la didascalia della foto Castorina recita: Sacrestia del Duomo – L’eruzione del 1693. Quanto al pittore acese Giacinto Platania cfr. S. Castorina, Cinque studi su Giacinto Platania. Editoriale Agorà, Catania 2013.  

[4] Sull’opera architettonica di Vaccarini cfr. almeno lo studio classico di F. Fichera, G. B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, Reale Accademia d’Italia, Roma 1934, e il recente contributo di E. Magnano di San Lio, Giovanni Battista Vaccarini, architetto siciliano del Settecento, Lombardi Editore, Siracusa 2008. Quanto a Stefano e Sebastiano Ittar cfr. G. Dato e G. Pagnano, Stefano Ittar: un architetto polacco a Catania, in “Lèmbasi”, Anno I, n. 1, pp. 85-104.

[5] Cfr. I. Paternò Castello, Le antichità di Catania, a cura di C. Ruta, Edi.bi.si., Palermo 2003, p. 43. Il principe menziona brevemente il busto ma dà al lettore odierno una notizia preziosa, attribuendolo a Vincenzo Gagini: «Prima di uscir dal Convento entri nella Chiesa il Viaggiatore, ove potrà osservare un’opera del celebre Scultore Vincenzo Cagini, cioè un busto di marmo del famoso Alvaro Paternò, che fu eletto Senatore Romano». Più ampia la notizia che ne dà il Rasà-Napoli nel suo accuratissimo libro dedicato alle chiese catanesi, cfr. G. Rasà-Napoli, Guida e breve illustrazione delle chiese di Catania, Galati Editore, Catania 1900, p. 195: «Osservasi finalmente, nella cappelletta medesima, illuminata da una sola finestra stretta e lunga ad ovest come il prospetto della chiesa, una nicchia nella quale fu il busto in marmo dello Alvaro, lavoro che taluni anziché al Gagini, vollero attribuire al Buonarroti di cui il Gagini era amico e compagno in quelle riunioni letterarie ed artistiche che sotto la presidenza e la protezione di Leone X si tenevano nel secolo XVI in Roma ove l’Alvaro esercitava, come sopra si è detto, la carica di senatore. Tale busto venne però ritirato verso il 1877 dalla principessa famiglia Manganelli». Il Rasà-Napoli riferisce di una fantasia diffusa tra gli eruditi locali che si spingevano ad attribuire il busto della Cappella Paternò allo scalpello di Michelangelo e precisa il momento in cui l’opera venne prelevata dalla nicchia.

[6] Quanto al lavoro cartografico di Ittar cfr. G. Dato, La formazione della cartografia moderna: il rilievo di Malta di Sebastiano Ittar, in Dal tardobarocco ai neostili. Atti della giornata di studi, Catania, 14 dicembre 1997, a cura di G. Pagnano, Messina 1997, pp. 155-166.