L’ARTE, ATTO DI CORAGGIO

Tatiana Alescio

Archeologia e dintorni
A cura di Clara Artale

 

Tatiana Alescio

Tatiana Alescio

«L’Arte non è definibile; ognuno a proprio modo ce l’ha dentro di sé; o ci giochi, come un trenino per un bambino, o no e decidi di lasciarlo nella scatola quel balocco. Dipende dalle scelte, dalla voglia di mettersi in gioco. Questo lavoro è un atto di coraggio. Ti metti a nudo pur stando dietro le quinte. Ci facciamo portatori di messaggi, sia nel teatro per bambini che nel teatro per adulti, scegliendo di dire delle cose piuttosto che altre. Nella maggior parte dei casi i tuoi messaggi diventano dei modelli, quindi devi avere il coraggio di fare delle scelte e bisogna quindi avere un grande senso di responsabilità, perché da una sera a teatro puoi indirizzare un pensiero. Il filo che lega tutti i miei spettacoli è la dignità; tutti i personaggi, soprattutto le donne, ne sono portatori. Anche se nella scrittura questo senso non era ben delineato, io lo ricerco, lo rafforzo, cerco di farlo venire su in maniera discreta. Mi piace che l’universo femminile, più vulnerabile, dalle mille sfaccettature, quanto meno porti con sé un sentimento di dignità. E si può essere dignitosi nella povertà, nel dolore, in tutte le circostanze della vita. Dignità voluta quella che porto in scena, tra un dialogo e l’altro.»
A raccontarsi è Tatiana Alescio, regista e scenografa che si definisce “Regista operaia” per la costante presenza nei suoi spettacoli. Laureata in “Arti Visive e Discipline dello Spettacolo”, ha seguito molti corsi per perfezionarsi e accrescere il proprio talento, come il Master Class in “Gestione delle imprese culturali”. Ha affiancato come aiuto regia molti egregi maestri come Vincenzo Pirrotta, Carmelo Rifici; nel 2009 ha diretto “Le supplici” di Eschilo con le coreografie di Aurelio Gatti. Regista e attrice d’infinita bravura ha ricevuto svariati riconoscimenti tra i quali il Premio Internazionale “Il Paladino” per il Teatro e il Premio Internazionale Drammaturgia Shoah 2014, come Finalista.

Tatiana Alescio

Tatiana Alescio

Come nasce un suo spettacolo?
«Parto da un innamoramento. Da un’idea, un fatto storico, da un argomento o una passione. Da lì la scelta di un testo o di una scrittura ex novo. Finita questa fase o contemporaneamente, mi passano davanti le scene, già le vedo. Lo spettacolo mi insegue, mi viene a cercare, non sono mai io che cerco lui. Mentre scrivo ho davanti tanti fogli; appunto le scene, i costumi, così prefiguro tutto ciò che vedo mentre leggo o scrivo. Successivamente passo ai bozzetti dei costumi e delle scene, sono anche scenografa; associo l’estetica alla funzionalità. Lo step ulteriore vede costumi e scene che vanno in produzione; do una mano anche alla sarta, taglio, faccio orli. Partecipare attivamente alla costruzione di ogni pezzo dello spettacolo ti permette di far nascere un’idea, un’illuminazione anche da un errore commesso; quel costume da classico può diventare classico-moderno o moderno. Ciò vale ancor di più per le scenografie. Per Mirra, a esempio, l’Isola centrale la immaginavo bianca; quando ho dipinto la scenografia e l’ho vista completamente canuta ho comprato campioncini di colori ma nulla mi portava alla mia idea ultima. Avevo preso della sabbia che mi sarebbe servita per altro; inciampando è balzata giù dal secchio. Si è addossata alla pittura fresca ed è rimasta lì, proponendomi un effetto di marmo che marmo non era, imperfetto, impreciso che mi piaceva davvero tanto.»
Come nasce la sua passione per il teatro.
«Sono nata con la parola “teatro” che mi ronzava in testa, senza che io abbia avuto esempi in famiglia. Mi affascinava il suono delle sue lettere. Il teatro mi ha sempre fatto sognare, non ero nemmeno mai stata a teatro. Il mio giocare con le bambole era qualcosa di molto simile alla recitazione; partivo da una sceneggiatura che scrivevo e poi avevo uno spazio con dei ripiani in cui organizzavo le mie opere. Mia madre mi osservava e mi ha detto, anni dopo, che sapeva che io avrei fatto ciò. Il ripiano più grande era per me l’area dove scorreva la vita, quelli più alti erano i vari livelli della vita privata, la casa, ecc. La prima esperienza fu “Fior di loto”, operetta in tre atti, cantata anche, per la quale fui scelta; la preparammo a scuola ma con un regista che arrivava da Roma. Era dunque una produzione importante che preparammo per mesi. La sera prima del debutto mi fratturai un piede. Nonostante avessi 10 anni e un piede fratturato ho fatto le 3 repliche successive, trovando una posizione del piede che mi recasse meno dolore. Oltre al canto ero impegnata anche in movenze coreografiche. Durava due ore e mezza. Alla terza sera crollai e fui portata in ospedale. Oggi rivedo quella bambina che aveva già capito l’importanza e la serietà con cui approcciarsi al lavoro. Da lì entrai in una compagnia locale, occupandomi anche per tanti anni di fare la suggeritrice. Ruoli medi, poi diventai l’attrice di punta di questa compagnia di non professionisti. Non era ciò che avrei voluto fare, ma capivo che dovevo passare da quella fase per andare oltre. Capivo che era una fase di passaggio… Raggiunta la maturità accostai agli studi di Giurisprudenza, intrapresi a Bologna, corsi di regia con una compagnia della città di un livello qualitativo nettamente superiore. Tornata qui in Sicilia ho costituito un esperimento; ho scritto un testo e ho provato a metterlo in scena. Lo scrissi e lo feci leggere a colui che era stato il mio regista per tanti anni; confidai solo a lui di averlo scritto. Ancor prima di leggerlo ci fu una mancanza di fiducia. Poi lo lesse infine dicendomi “scrivine altri 10 e poi mi fai leggere”. Quindi, a mo’ di sfida, lo misi in scena. Lo spettacolo andò molto bene e allora formai la compagnia che si chiama “Trinaura”. Produciamo spettacoli per bambini, per ragazzi e poi la prosa per gli adulti. Prediligo il dramma alla commedia. Da lì ho messo in scena i classici: De Filippo, Pirandello. Abbiamo ricevuto molti riconoscimenti, siamo stati in America. L’esperienza formativa dell’Accademia in discipline dello spettacolo mi ha fatto crescere, mi sono specializzata in scenografia. Ma anche gli anni al Dramma Antico sono stati molto formativi per la mia professione. Walter Pagliaro è stato il primo maestro con il quale ho lavorato. Si sono susseguite poi molte altissime personalità che ho assistito in molti spettacoli. Il Teatro greco/classico fa parte di me: chi mi conosce dice che si intravede anche nella mia prosa leggera, poiché di leggero faccio ben poco.»
Parliamo un po’ dei suoi spettacoli…
«Forse il mio spettacolo più noto, in giro da 4 anni, che ha vinto il premio Shoah 2014 dell’Università Tor Vergata, è “Io sono il mio numero”, tratto da testimonianze; donne diverse per età, ceto sociale, lingua. Lo portiamo in giro per le scuole e non solo. Inoltre quasi ogni anno inauguro le Verghiane di Vizzini e quindi c’è molto Verga nei miei spettacoli; l’ultimo, che abbiamo proposto per le scuole e anche come serale, mette in scena in maniera concatenata le novelle “La lupa”, “Don Canderolo”, “Caccia la lupo”, “Nedda”, “Storia di una capinera”. Dà una visione completa della scrittura verghiana. Per i bimbi ripropongo autori come Collodi; cerchiamo di portare in scena i classici che ci hanno formato: “La Gabbianella e il Gatto”, “Pinocchio” e molto altro.»
Da regista, come prepara i suoi attori all’incontro col pubblico?
«L’interpretazione deve sempre essere misurata; deve essere supportata da uno studio infinito dietro. Il messaggio della tragedia è perfetto così com’è. Non bisogna strafare. Io i miei attori li incontro singolarmente; gli propongo un passato chiaro del personaggio che dovranno interpretare, così da regalargli un futuro tracciato, già. Così gli attori possono comprendere e avere sicurezza di sé; poi ci si mette a tavolino. È importante anche il rapporto che si crea tra gli attori; nella seconda fase delle prove si cena insieme anche. L’attore si spoglia della sua impostazione di base e diviene una compagnia, nel senso di comitiva. Parlare del personaggio serve a trovare gli stessi attori, e me stessa, diversi. Non amo i registi troppo severi perché la severità inibisce la creatività; liberi, gli attori si sentono autonomi, capaci di potersi esprimere. Ci sono degli spettacoli in cui gli attori, pur essendo bravi e parlando tra loro, viaggiano su binari singoli. Quando invece in una compagnia si va d’accordo, si instaura un’armonia non comune; in quel caso abbiamo vinto tutti. Mi reputano tollerante, ma è solo voglia di metterli a loro agio ed esserlo anch’io. A esempio, quando due attori non sono in una sana competizione, in scena ci perdono entrambi.»
C’è un particolare che si ripete nelle sue opere?
«Una cosa che noto quando vedo un mio dvd, anche a distanza di anni, è che c’è quasi sempre tra i personaggi o una madre o un senso della maternità che emerge. Avviene in maniera inconsapevole; c’è sempre un riferimento a una madre che ha allattato o sta allattando, o allatterà. Forse perché, anche privatamente, ho vissuto questo profondo momento di magia con le mie figlie. Ricorre anche sotto un’altra veste; per esempio un’amante ripropone una scena in cui dice di aver sognato l’amato appoggiato al suo seno. Un gesto nobile che torna, scoperto da poco e che ha stupito anche me.»
Chiudiamo quest’intervista con l’immagine di Tatiana piccina, caparbia già allora.
«Ho sempre sognato poco, il sogno non fa parte della mia vita. Già da piccola mi ero data la regola “vivendo vedendo”; sapevo di avere delle passioni ma non mi precludevo alcuna strada.»