MARIO SIRONI, GENIO RITROVATO

A cura di Luigi Tallarico

“Sironi ha voluto risolvere il dualismo ricorrente tra il potenziale e l’attuale, tra l’artista individuale e la storia della comunità.”

sironi 5Per capire l’importanza concreta della realtà italiana degli anni Trenta, occorre esaminare l’affermazione sironiana, secondo cui gli artisti del tempo, solo in quanto impegnati nel “governo spirituale” del proprio tempo, possono e sanno esprimere uno “stile di vita”. Non è necessario prefigurarsi una dimensione astratta di vita, presa in prestito, se si vuole dimostrare la concretezza di vita di un popolo antico, come il nostro, legato a quella continuità che ci fa partecipi – nel nostro tempo – dei valori della tradizione. E non è un caso che proprio negli anni successivi alla fine dell’ultimo conflitto, quando l’Italia, sconfitta e trascinata nella caduta dell’Europa, si sentirà dire dagli storici stranieri, da Pontus Hulten, direttore del Centro Pompidou e da Norman Rosenthal, direttore della Galleria Nazionale d’arte moderna di Londra, che proprio l’Italia fra tutte le nazioni vincitrici e perdenti, “si è presentata sulla scena internazionale delle arti” (sto citando il pensiero di Pontus Hulten) “come l’unico paese in grado di porsi immediatamente in una dimensione europea”. Una Italia da primato dunque, altro che Italia “provinciale” e “autarchica”, come diranno i profeti di sciagure del dopoguerra piuttosto una Italia avvertita e consapevole che proprio in quella “provincia” più capiva se stessa e più prendeva con sé gli altri, più era italiana e più si sentiva europea. Come hanno riconosciuto gli storici stranieri, non si è trattato di una frattura tra le due Italie, piuttosto di una continuità. Cioè “continuità”negli anni Trenta e “continuità”dopo il 1945, allorché la nostra arte, solo in forza dei canali comunicanti che la legavano all’avanguardia storica, alla metafisica di De Chirico e Carrà, al novecento della Sarfalli; ha potuto indicare all’Europa le certezze di un primato che interesserà tutta l’arte moderna. sironi 4

Per rintracciare oggi questa “continuità”, tra passato e futuro, occorre ricomporre l’unità di pensiero che ha messo in evidenza, nei secoli, la “doppia natura” del pensiero estetico italiano. Significa ritrovare quel “nesso sotterraneo” che unisce la velocità futurista alla stasi metafisica; l’anticlassicismo boccioniano al classicismo e al naturalismo di Carrà e dei “Valori plastici”, la forza dello stile, espressa da Sironi, non nella individualità intimista e malata –come è stato detto- ma nella coerenza di un contesto storico. Significa, in definitiva, rintracciare la comune identità storica e confermare che la realtà non si collega alla vita del quotidiano, se non nel momento in cui il soggetto entra in rapporto con essa, per compenetrarvisi, non per contemplarla.

A proposito di certi nostri patetici storici dell’arte, che volendo “salvare” criticamente Mario Sironi dai loro ingiusti attacchi ideologici, lo hanno ritenuto impaniato nelle visioni intimiste e familiari e perciò “incapace” di comprendere –povero reietto- il presente tragico della storia. In effetti Sironi ha voluto risolvere sironi 3il dualismo ricorrente tra il potenziale e l’attuale, tra l’artista individuale e la storia della comunità. Per intenderci, tra “l’aspra e tormentosa”protesta sironiana delle “Periferie urbane”, nate dall’urbanesimo coatto per i reietti del lavoro, e la gravitas dei monumenti pubblici, dall’ “Italia corporativa” al  “Popolo italiano” e all’affresco dello Studium Urbis, in cui produttori e lavoratori dispiegano la coscienza di sé, di rappresentare non solo i soggetti dell’economia, ma la superiore condizione che eguaglia il lavoratore all’artista, in quanto crea e lavora.

Invero Sironi ha voluto, in termini di comunicazione e arte, risolvere il dualismo tra il messaggio estetico universale e quello contingente, anche rischiando la “caduta” nella illustratività del tempo.  Ma soprattutto ha voluto stabilire un parallelo tra il carattere religioso, che da religere ( “scegiere”, “distinguere”) antepone non solo l’interesse generale a quello particolare, ma il senso della spiritualità a quello del tempo, legando il messaggio al valore originario, onde permeare – son sue parole- “l’unità di stile e la grandezza di linee, al vivere comune”.

opera 1Invero Mario Sironi, come del resto gli intagliatori di pietre delle cattedrali medievali, si preoccupa del governo spirituale, proprio perché sa che esso deve permeare e guidare la comunità, alla quale l’artista è legato. Ma sa anche che la comunità, protesa in avanti, non può comprendere l’uomo del proprio tempo senza avere conoscenza dell’uomo originario, perché solo così l’artista potrà riflettere, nella visione, la radice comune, testimoniando del potenziale e dell’attuale. E se l’artista sarà partecipe, nelle forme d’arte all’arrivo, di questa visione che lo lega all’esperienza comune, non ha importanza che la condizione oggettiva, cioè la tematica o la funzione soggettiva, a cui l’artista è dedito, siano o meno diverso. Infatti sia che l’artista operi per la costruzione di cattedrali gotiche, oppure per innalzare in una piazza di Milano -come fa Sironi- l’emblema del “Popolo Italiano”, cioè del lavoratore che è diventato difensore della sua fede, non ha importanza che sia frate o secolare e che faccia parte o meno di una gilda o di un ordine ispirato agli ordinamenti civili, religiosi o politici del tempo: occorre invece che il suo linguaggio formale si a all’altezza della tensione spirituale, che la forma attinga e riveli la fede della comunità del suo tempo. sironi 1

sironi 2La rassegna romana di Mario Sironi sugli “Anni della solitudine”, curata da Vittorio Sgarbi, Mariastella Margozzi è Romana Sironi, ha giustamente confermato che l’alto valore delle opere, siano esse la “Periferie urbane” o la “Carta del lavoro”, le “Apocalisse” o l’ “Italia corporativa”, non hanno subito un deperimento di ordine estetico a contatto degli eventi esaltanti o depressivi del quotidiano. E questo perché da un artista, che aveva chiesto alle superfici di una tela o di un muro, alla materia plastica e alle pareti architettoniche la “corrispondenza di una idea”, in quanto “corrispondenza di uno stile” (diceva che lo “stile è vita”), non ci si poteva aspettare una manifestazione di reclinato o compiaciuto abbandono intimista – come è stato ingiustamente detto- dal momento che la sofferenza e il dolore stimolano un’attività e muovano le idee, essendo valori catartici.

D’altra parte, essendo Sironi convinto che il linguaggio del pittore e del poeta è un linguaggio storicizzato, non legato ad una astratta e inattuale purezza, deve prendere atto che arriva, come era arrivato, il momento della “solitudine”, in l’artista è alle prese con un rendiconto, che non è soltanto individuale, ma che è legato agli eventi ineluttabili della storia. E se Sironi, per la guerra, abbandona i muri e le megalografie espositive e perciò i simboli della comunità, è anche vero che affronta la tormentata pittura da cavalletto all’indomani di un evento per lui sconvolgente e che segna la fine di un sogno con la sconfitta dell’Italia e dell’ Europa. Ha ricordato Fortunato Bellonzi, nella monografia Electa del centenario che, allorché va a visitare Sironi, dopo la fine della guerra, lo trova con la faccia sofferente e lo sguardo incupito, fisso sul suo lavoro incompiuto e preoccupato per il nostro destino di popolo e per lo scacco subito dell’Europa. opera2

Per Sironi in quei giorni – scrive Bellonzi- l’ “argomento” più importante di cui discutere non è l’arte, “ma, appunto, la condizione dell’Italia”. E’ questo l’ “argomento” risolutivo della sua “solitudine”, per cui in quei giorni terribili – accettati senza abiure né patimenti – ogni espressione pittorica si tramuta in implosione e la forma si dissolve in un’informe materia cromatica. Ora l’artista è veramente rimasto solo e nell’attesa della morte, lascia sul cavalletto un’opera non finita, in cui i corpi sono ridotti a grumi e a linee sfilacciate, opera legata alla serie delle “Apocalissi”, l’apocalisse giovannea che della storia indica arcanamente il giudizio ultimo, cioè la catastrofe.

La morte verrà il 13 agosto del 1961, cinquant’anni fa, nella sua casa presa in fitto alla periferia di Milano, in una città deserta per l’imminente ferragosto. Ai funerali qualche amico che non era ancora partito e lo stendardo dei combattimenti.