Domenico Bonaccorsi Guttadauro, personaggio da ricordare per la storia di Catania e dintorni

Domenico Bonaccorsi Guttadauro, personaggio da ricordare per la storia di Catania e dintorni

Memorie di un Personaggio

A cura di Giovanni Vecchio

Domenico Bonaccorsi Guttadauro, personaggio da ricordare per la storia di Catania e dintorni

Domenico Bonaccorsi Guttadauro, personaggio da ricordare per la storia di Catania e dintorni

Tra i tanti personaggi da ricordare della storia di Catania e Provincia tra Ottocento e Novecento,  figura certamente Domenico Bonaccorsi Guttadauro, marchese di Casalotto, che acquisì con decreto dell’8 aprile 1903 il titolo di “principe di Reburdone”. Egli era nato a Catania il 16 ottobre 1828, figlio di Guglielmo ed Eleonora Guttadauro. Rimasto orfano di padre all’età di nove anni, fino ai ventuno fu sotto la tutela dello zio Giovanni (“Vanni”), benedettino, che lo fece studiare nelle scuole dei Gesuiti del Collegio Cutelli.

Nel 1848, appena ventenne, fu inserito con un alto grado nel corpo degli Ufficiali dell’Armata voluto dal governo rivoluzionario che si era formato a Palermo con a capo Ruggero Settimo. Il che gli procurò le rimostranze dello zio benedettino, legato alla casa regnante dei Borboni. Tuttavia lo zio “Vanni” ammirava questo giovane ardimentoso e lo protesse quando arrivarono a Catania le truppe regie, dopo il fallimento dell’azione rivoluzionaria. Infatti il giovane colonnello fu ospitato ad Aci Sant’Antonio nelle terre del Casalotto, dove furono tolti i cancelli e murati i varchi.

Domenico Bonaccorsi Guttadauro, personaggio da ricordare per la storia di Catania e dintorni

Domenico Bonaccorsi Guttadauro, personaggio da ricordare per la storia di Catania e dintorni

Altro episodio molto significativo degno di essere raccontato per le straordinarie abilità strategiche dimostrate, fu quello del 1860 quando Garibaldi arrivò a Palermo ed egli,  quale comandante della Guardia nazionale di Catania,  organizzò  le forze civiche. Il suo discendente Francesco Spadaro-Ferlito racconta che “per arginare la rivolta popolare ed indirizzare l’azione verso i piani prestabiliti, fece abbandonare alle truppe regie il Castello Ursino e armò a proprie spese un battaglione di volontari per imporre a Siracusa la resa al Presidio Militare di quella città”.

Quella che poteva apparire come un’azione antirivoluzionaria, si rivelò, invece, una brillante operazione strategica dell’opposizione aristocratica ai Borboni.  Infatti, quando nel 1862 Garibaldi arrivò a Catania “ingiunse al generale di allontanarsi dalla città entro ventiquattro ore”. Di fronte al tumulto popolare e al tentativo d’incendio del suo palazzo, egli reagì disponendo l’apertura del portone e presentandosi di fronte alla folla schiamazzante con il cappello a cilindro e un sigaro in bocca, seguito dalla sua carrozza con il cocchiere in serpa. Tutti a quel punto lo salutarono con un inchino togliendosi i berretti. Non sapevano, però, – e qui sta il fulcro della sua strategia – che il Marchese stava recandosi al Covento dei Benedettini, dove si trovava Garibaldi con i suoi uomini, “per offrirgli i mezzi per imbarcarsi per le Calabrie dal porto della città, evitando in tal modo che accadesse a Catania ciò che accadde poco dopo in Aspromonte”. (Spadaro-Ferlito).

I rapporti con lo zio “Vanni” si incrinarono quando, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, furono sequestrati i beni ecclesiastici e lui, grazie ad un prestito di notevole entità ottenuto dal Banco di Sicilia (estinguibile in trent’anni) e agevolato da un tale Caudullo, esponente massonico, sfidando persino la scomunica papale, acquisì l’ex feudo Jumenta di Ramacca di circa mille ettari, espropriato al vescovo di Caltagirone. Con questa operazione si rese autonomo economicamente dallo zio benedettino.

Fu sindaco di Catania dal 1° gennaio 1867 all’11 agosto 1971. Fu eletto deputato al Parlamento nazionale per la destra storica per il collegio di Catania  dal 27 gennaio 1861 (ma si dimise per problemi personali il 29 gennaio 1864) e fu rieletto per ben due volte il 28 settembre 1879 e il 16 maggio 1880. Il 26 novembre 1884 fu nominato senatore. Non dimentichiamo che fu anche Presidente della Provincia di Catania dal 2 settembre 1872 all’11 agosto 1895 e ancora dal 13 agosto 1906 al 3 febbraio 1908.

Quando nel 1882 morì lo zio “Vanni”, egli ereditò il patrimonio familiare, ma rischiò il fallimento per un’opera meritoria ovvero l’impresa onerosissima di portare l’acqua sorgiva della Reitana a Catania per combattere le epidemie di tifo e colera, che portò a compimento nel 1887. Riuscì a risollevarsi solo quando alla fine del secolo fu istituita la Società Anonima delle Acque di Casalotto ed ebbe la presidenza vitalizia per sé e i suoi eredi. Nel 1903 il titolo  di principe Emmanuel anch’esso ereditato, su sua richiesta, venne sostituito con quello, come già ricordato sopra, di Principe di Reburdone, con il quale comunemente viene ricordato. Rimase celibe e lasciò erede il nipote Francesco, adottato come figlio, sotto la tutela della cognata Caterina Pucci dei baroni di Sangiuliano. Egli morì l’otto ottobre 1917 nella sua villa di Bongiardo (ora nel Comune di Santa Venerina, allora appartenente a quello di Giarre nell’area di confine della Contea di Mascali), denominata appunto “Casa del principe”. Spadaro-Ferlito testimonia che “la sua casa era come la sobria reggia di un monarca bonario”; egli, infatti, seguendo la scia dello zio, fu anche mecenate e aiutò giovani talenti come il figlio del suo fattore, Mariano Vasta, divenuto scultore prestigioso, coautore tra l’altro del monumento ad Anita Garibaldi sul Gianicolo a Roma e che lasciò opere in Vaticano e nel Duomo di Milano, all’estero oltre che in Sicilia e nei palazzi dei Casalotto a Catania e ad Aci Sant’Antonio. Il compianto prof. Antonio Pagano aggiunge che “alla fantasia del ragazzo che ero (Domenico Bonaccorsi Guttadauro) appariva un uomo da leggenda: dovizioso, amorevole, titolato, quasi inattingibile”. Nel feudo della Contea di Mascali dove morì, la sua casa alcuni decenni fa è stata alineata e la cupola bramantesca che si stagliava in alto al centro del feudo, divenuta quasi simbolo di Santa Venerina, per la prolungata incuria è crollata alcuni anni fa. La legge del tempo e le responsabilità degli uomini si intrecciano inesorabilmente.