Le notti bianche di Dostoevskij

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Recensioni ed Eventi
A cura di Sara D’Angelo

 

Un classico firmato Fëdor Dostoevskij. Un romanzo con un velo di poesia.

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Il protagonista è un giovane, un’isola di uomo dimentico di sè stesso che vive la sua vita fertile di solitudine. È un sognatore incline alla malinconia, la sua realtà è distorta da fantasmi e fantasie che lo seguono e inseguono ovunque. È un uomo estraneo a sè stesso, sconosciuto al mondo. Trascorre le notti vagando in una Pietroburgo che lo ospita con indifferenza, la sua è una presenza spenta e una grande città assorbe respiri di vita accesa soltanto.
Nessuna notte è una notte qualunque. Lo è ancora di più per chi fa della propria notte un sogno tenuto ben distante dal sonno.
La magia di Pietroburgo è quella di una città abituata alle notti bianche, il colore sempre uguale dei tramonti attardati è consuetudine che dà calore al cuore piuttosto che brividi a corpi vuoti.
La notte vergine dei tormenti che ad ogni alba ritornano all’appello è serrata come un guscio di noce, impenetrabile a chi alla notte affida solo il riposo del vestito di pelle. È tanto altro la notte, è tanto altro l’uomo lasciato da solo dietro alle finestre di Dio chiuse, sospese.
Un sogno di notte è comune, un sognatore errante per le vie della città non lo è.
Pietroburgo è il teatro di una passeggiata dopo il tramonto, il sognatore incontra una giovane emersa dal principio di buio per destarlo dal suo torpore di fantasia. Nasten’ka, è questo il suo nome, solletica curiosità e suscita in lui un’emozione imprevista. È il suo primo contatto con il mondo.
Quattro notti per conoscersi, quattro notti per lasciarsi. Un breve incontro destinato a diventare il sigillo di una vita.
I due estranei si raccontano, si trovano, si perdono, inclini a darsi e confidarsi nelle notti testimoni dei loro appuntamenti, una coppia di cuori luminosi come le stelle accorse a rischiarare i loro animi.
In questo modo, il posto dei sogni verrà rapidamente sostituito dai rimpianti: “Come veloci volano gli anni! E ancora ti chiedi: che ne hai fatto di quei tuoi anni?Dove hai seppellito il tuo tempo migliore?Sei vissuto oppure no? Guarda, dici a te stesso, guarda come il mondo diventa freddo! Passeranno ancora degli anni e dopo di essi verrà la cupa solitudine, verrà, appoggiata alle stampelle, la tremante vecchiaia, e poi angoscia e desolazione… Impallidirà il tuo fantastico mondo, appassiranno e moriranno i sogni tuoi e cadranno come le foglie gialle dagli alberi… Oh, Nasten’ka! Sarà triste restar solo, completamente solo, e non avere neppur nulla da rimpiangere, nulla, proprio nulla… perché tutto quanto perderò, non è stato che nulla, uno stupido, tondo zero, nient’altro che sogno!“.
Lui è il protagonista di sè stesso, fino a quel girotondo di ore scure non ha mai creduto fosse possibile un incontro che lo portasse fuori dalle illusioni in cui ha sempre vissuto. Due vite e una panchina, due storie raccontate per conoscersi e scoprirsi. Nasten’ka è una ragazza semplice, vive con la nonna ed è profondamente innamorata di un uomo. Vive dentro un ansioso alone d’attesa aspettando il ritorno del suo promesso. È la sera dell’appuntamento ma lui non c’è. Dimenticarlo è la strada più semplice da seguire, c’è un sognatore disposto a bere dalle sue rosee guance l’innocenza delle lacrime che sgorgano copiose.
“Io vorrei farti dormire, ma come i personaggi delle favole, che dormono per svegliarsi solo il giorno in cui saranno felici. Ma succederà così anche a te. Un giorno ti sveglierai e vedrai una bella giornata. Ci sarà il sole, e tutto sarà nuovo, cambiato, limpido. Quello che prima ti sembrava impossibile diventerà semplice, normale.”
Nella quarta notte l’innamorato di Nasten’ka appare. Non l’ha dimenticata, la passeggiata diventa così la soglia da varcare per tendere la mano alla loro vita insieme.
Quattro notti hanno depositato un’impronta a quattro passi.
La solitudine veste l’incipit di un primo tramonto, il turbamento scuote un giovane vigore addormentato, l’illusione incanta ma scivola presto dentro un profondo pozzo d’amarezza.
Il sognatore, inghiottito nel limbo della solitudine, intravede in Nasten’ka un tetto per le pareti nude della sua anima dispersa nel naufragio dei suoi pensieri.
Il tempo imperfetto della felicità è un limite noto a tutti, il paradiso umano conta briciole di palpiti e lunghe distese di pozzanghere sazie di lacrime. La conquista e la perdita sono gemelle con lo stesso destino.
“Un attimo di vera beatitudine! È forse poco per riempire tutta la vita di un uomo?”
Il respiro felice è lo spazio di tempo occupato a distrarre la sconfitta incombente.
Un epilogo infausto. Un castello di sabbia distrutto da impietose lusinghe di un vento che ha solo saputo ingannare. Finisce così il ristoro fallace di una notte di Pietroburgo, l’oscurità ha tradito, ha illuso. E allora il ritorno al sogno è una grotta che accoglie e ripara un sognatore desto per poco.
“Le mie notti finirono un mattino”.

La trasposizione cinematografica più celebre del romanzo di Fëdor Dostoevskij è firmata dalla regia del Maestro Luchino Visconti. Nel 1957 il famoso regista diresse Marcello Mastroianni nella sua brillante interpretazione del sognatore e Maria Schell nel ruolo di Nasten’ka.
Il film vinse il Leone d’argento al Festival di Venezia nel 1957 e l’anno successivo conquistò il Nastro d’argento per la migliore scenografia, migliore colonna sonora e miglior attore protagonista (Marcello Mastroianni).