RECENSIONI: Storia di una capinera

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Recensioni ed Eventi
A cura di Sara D’Angelo

 

Storia di una capinera è il romanzo di Giovanni Verga che in poco più di cento pagine racconta, in forma epistolare, la travagliata storia di Maria, promessa sposa di Cristo, rinchiusa in un convento di Catania.

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La prima pubblicazione ufficiale del romanzo è del 1871. Come lo stesso Verga ammette, il romanzo è “quasi” la sua autobiografia. Quando nel 1854 la famiglia Verga dovette allontanarsi da Catania per sfuggire al pericolo del contagio dell’epidemia di colera, egli appena quindicenne, s’innamorò di Rosalia, un’ educanda del monastero di San Sebastiano in quel di Vizzini.
“Aveva visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia. Non osava ribellarsi non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini. La povera capinera cercava di rassegnarsi, tentava di beccare quel miglio e quelle amiche di pane, ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa e l’indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. Era morta perché in quel corpicino c’era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.”
Nel 1854 in una Catania colpita da un’ epidemia di colera, Maria, una giovanissima ragazza isolata in convento da quando diventa orfana di madre, (il padre si risposa) per la prima volta in tutta la sua vita varca la soglia del monastero per trovare un sano riparo nella casa di campagna del padre, a Monte Ilice. Maria qui vive giorni felici, il suo tempo è scandito da un ritmo di vita tutto nuovo per lei, ogni giorno assiste a scene di vita domestica che la stupiscono, lei che ha sempre vissuto tra i corridoi freddi e anonimi del convento. La sua famiglia l’accoglie con premuroso rispetto, la sorellastra Giuditta e il fratello Gigi vedono in lei una sorella “aggiunta” con cui condividere momenti di gioco e lunghe passeggiate tra i boschi, l’atteggiamento della sua matrigna è molto diverso, la donna non vede l’ora di riportare in convento l’ospite indesiderata.
Durante il suo soggiorno a Monte Ilice Maria intrattiene uno scambio epistolare con Marianna, la sua più cara ed intima amica, anche lei uscita dal convento a causa dell’epidemia del colera per rifugiarsi nella sua casa a Mascalucia.
A Monte Ilice Maria è come un cieco che ha miracolosamente riavuto la vista, è un continuo emozionarsi per il più piccolo prodigio della natura, un ruscello, il bosco, il castagneto, il maestoso re di tutta l’isola, il vulcano vivo, l’Etna.
Maria s’immerge a piena vita tra le meraviglie della natura, nessuno le ha mai detto che è lei l’autentico capolavoro di Dio.
A poche centinaia di metri dalla casa di Maria primeggia una costruzione seminascosta dalle fronde di alberi secolari, è lì che abita la famiglia Valentini, anch’essa fuggita da Catania a causa del colera. Le due famiglie, già strette da sentimenti di cordiale amicizia, infittiscono i loro rapporti trascorrendo molto tempo insieme. Maria è molto felice di avvicinarsi ad Annetta Valentini, che diventa presto sua amica insieme al fratello Antonio, da tutti chiamato Nino. Sono giorni spensierati, l’incubo del colera è lontano perché lontana è Catania. Tutti si sentono al sicuro, anche Maria sa di essere al sicuro dal colera, malattia contagiosa e mortale, ma ad ogni pomeriggio dedicato al canto, al ballo, alle passeggiate sotto un’azzurra coperta di cielo comincia a perdere tutte le sue certezze, la sua vita monastica è ogni giorno più estranea alla sua essenza. Maria è al sicuro dal colera ma non dall’amore.
La sua anima costretta a vivere di sfumature ceneree è destinata a esplodere ardentemente, come ad imitare la furia di cenere e lapilli ad ogni fugace contatto con Nino, con la sua voce, con il rumore dei suoi passi. Lontana dal possibile contagio della malattia mortale, Maria si ritrova a combattere le febbri della passione sorda ad ogni tentativo di essere domata. La febbre diventa incurabile malattia quando il giovane Nino le confessa il suo amore e le chiede di non fare più ritorno in convento.
Maria non ha che una nemica ed è sè stessa, nel privato della sua stanza lei, soltanto lei è testimone della lenta lacerazione della sua anima pura e fragile, nel delirio delle allucinazioni vede il suo vestito da educanda già liso dall’onta del peccato.
” L’amo! È un’orribile parola! È un peccato! Ho tentato sfuggirgli, mi tiene il ginocchio sul petto, mi calpesta la faccia nel fango. Tutto il mio essere è pieno di quell’uomo: la mia testa, il mio cuore, il mio sangue. Allorché lo ascolto son felice, quando mi guarda tremo. Vorrei stargli vicina ad ogni momento e lo fuggo. Vorrei morire per lui. È il castigo di Dio, la perdizione.”
La matrigna, una donna arguta d’ingegno e brusca di modi, intuendo il vero motivo del malessere di Maria, si prodiga con ogni espediente per allontanarla dai momenti conviviali con i signori Valentini e soprattutto da ogni pericoloso contatto con Nino. E così il resto dei giorni di vacanza forzati trascorrono in un’atmosfera surreale, mentre le pareti del salotto di casa sono scosse dalla festosa vibrazione delle note musicali e dal sonoro vocìo delle chiacchiere degli ospiti, pochi metri distante, rinchiusa nell’angusto spazio della sua camera, urla in silenzio la disperazione di Maria, innamorata del suo peccato.
” Oh! Marianna! Marianna mia! Quanto ho pianto! I signori Valentini partiranno domani! Non c’è più colera! Non c’è più nulla! … partiranno!… Non lo vedrò più!
Ma egli non ha dunque pensato che io muoio per lui? Perché non è venuto un momento per dirmi addio? Perché non mi ha fatto udire la sua voce? Mio Dio! Mio Dio! ”
Catania è ormai libera dal pericolo dell’epidemia e le due famiglie fanno rispettivamente il loro rientro a casa.
La notte prima della partenza Nino attraversa la furia di un temporale pur di raggiungere la finestra della camera di Maria. Le imposte sono e rimangono chiuse, serrate, come impone la legge della croce che impera sopra il letto di Maria. Sotto la pioggia battente Nino, stordito dall’ardore che sente viaggiare nelle sue vene, parla a Maria, certo di saperla ansimare dietro quel muro di vetri, ansioso di confondere il suo destino. Non ha torto, Maria è lì, a due passi da lui ma anni luce distante.
Non sapremo mai chi, in quella lunga notte, ha versato più lacrime, Maria, Nino…o il loro complice tetto di cielo.
Il giorno dopo sul davanzale che è stato teatro di uno straziante addio, Maria troverà una rosa morente, fradicia di pioggia e lacrime, reliquia di una felicità proibita.
Al ritorno a Catania della famiglia Valentini segue il rientro di Maria in convento. Dalla sua celletta la sventurata riprende il suo scambio epistolare con Marianna, l’unico cuore disposto ad assorbire il tormento che le sta consumando il corpo e l’anima, ad ogni giro di lancette sempre più straziati. È grazie a suor Filomena che, mossa da sentimenti di pietà per la giovane, Maria riesce a fare recapitare le sue lettere a Marianna. La vita del convento è sempre più insopportabile, i ritmi serrati delle lunghe ore di preghiera appaiono un supplizio anziché la normale pratica della vocazione che Maria non ha mai posseduto. È febbre, è delirio, è disperazione. “Nino Nino Nino” il nome nasce e muore su quelle labbra pallide e tumefatte dalle mortificazioni che essa stessa s’infligge. Maria si punisce perché ama, Maria si punisce perché è amata. Non c’è condanna più severa della sentenza emessa dal tribunale della propria coscienza.
Il precipizio virtuale su cui Maria è aggrappata diventa reale quando una maledetta verità la raggiunge. Nino sposerà presto la sua sorellastra Giuditta.
Un matrimonio con il corteo di una morte.
Il 6 aprile 1856 Maria prende i voti. Quella che sta vivendo da protagonista di una cerimonia nuziale, lei già da parecchi giorni la immagina come un funerale, il suo.
Tutta la sua famiglia e i Valentini al completo assistono alla vestizione di Maria. Senza vocazione, letale sacrificio.
I giorni che seguono la cerimonia aggravano il suo stato d’angoscia, si moltiplicano i gesti esasperati, le grida sono più assordanti delle campane del convento. Maria teme di soccombere al debolissimo filo della ragione, un residuo di senso seduto al suo fianco solo per compassione. Scrive a Marianna che dentro il monastero da 15 anni vive nel segreto di una cella una suora pazza, suor Agata.
La leggenda dice che quella cella non rimarrà mai vuota. Ci sarà sempre un’altra anima perduta che prenderà il posto di suor Agata e della sua pazzia. L’altalena dei sensi mantiene l’equilibrio spinta da una catena debole, Maria è sicura di essere la prossima ospite di quella cella.
Intanto dal Belvedere del convento Maria scorge la casa dove abitano Nino e Giuditta.
“Lo cercavo cogli occhi intorno a me e lo vidi, era lui! Oh il mio povero cuore! Mi parve che altra volta mi avessero detto che mia sorella era andata ad abitare una casa vicino al convento, ma Dio mi aveva fatto la grazia di non farmici pensare. Oh Signore! Se vi potessi ringraziare per averlo veduto…solo! Nino! Nino! Son qui! son io! Non mi vedi? Non ti rammenti? Oh Nino! Fammi la carità di guardarmi!”
Da quel momento Maria approfitta del silenzio della notte claustrale per andare al Belvedere con l’intento di riuscire a vederlo, anche solo per qualche minuto. La scìa di una decisione isterica attraversa quella ragione malata. Scappare dal convento per andare da Nino, per vivere con lui prima di morire per lui. È una vera pazzia ma sarà una pazzia interrotta giacché le suore scoprono il suo disegno e la chiudono in cella con suor Agata.
Maria muore tre giorni dopo.
Il suo testamento è una lettera per Marianna accompagnata da un crocifisso d’argento, una ciocca di capelli e petali morti di una rosa, quella rosa che Nino, una sera, sotto una pioggia battente, adagiò sul davanzale di Maria.
” Ella adesso è fra i beati e prega il Signore per noi miseri peccatori che abbiamo la debolezza di piangere la sua morte.”
Il romanzo è un crescendo di affanni, il riflesso di quanta vita può dare e quanta vita può togliere l’avvento del calore di una voce, di un sussurro insperato ma teneramente atteso. Maria è nata per udire quella voce, la sua natura è preparata da sempre a riceverla, lei però crede di non possedere alcun valore come spesso accade a chi più merita.
Un temporale comincia sempre da una goccia di pioggia, un viaggio dal primo passo, la vetta della pena si raggiunge lentamente. È un libro al contrario la vita, le pagine più belle sono riservate a chi ha il coraggio di capovolgere i fogli malvagi per capriccio del fato.
La storia di una capinera è la storia di un momento, non dura di più la sosta della felicità sul binario della vita. Maria pur non disponendo di ali come la capinera, volteggia su sè stessa in un girotondo affamato d’aria ma con prepotenza rinchiuso. Il destino di Maria è scritto nel libro del tempo. L’800 è pieno di storie di denuncia della condizione femminile assoggettata alla legge di una società sorda alla disperazione di innocenti virgulti recisi. Il chiostro era il porto naturale per quelle ragazze che, non avendo la disponibilità di una dote, erano condannate a prendere i voti.
L’inno alla rassegnazione è il sottotitolo nascosto del romanzo. La rinuncia di sè, perché? Perché piegarsi alla rinuncia delle gioie del mondo, allo spasmo benedetto di un sentimento concepito dal cuore, perché? Quante Maria ieri, tante Maria oggi, la gabbia delle capinere è da sempre un carcere affollato.
Maria di Verga, Gertrude di Manzoni. Due suore, stesso abito, uguale la prigione del convento. Maria vive e muore da vittima, Gertrude macchia la sua veste con il peccato, fedele a sè, infedele a Dio. Il destino scritto può essere cancellato, la capinera crede nella forza delle sue ali, non vuole morire di fame, non vuole morire di sete. Le lettere inzuppate di lacrime ingialliranno presto dentro un cassetto dimenticato, il dolore gridato sarà inghiottito dal vento. La monaca Gertrude sceglie di volare…la sventurata Maria “non rispose.”