QUELLI DELLA PRIMA LINEA

Analista

Attualita

A cura  di Antonino Leotta
Uno dei miei figli fa il medico. E sua moglie invece pure. Lavorano in ospedale. Sono in prima linea, dove si conoscono bene le persone che escono e non si sa cosa portano le persone che arrivano.

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Timidamente e raramente chiedo loro qualche punto di vista sulla situazione. Risposte generiche e appena accennate. Non è un semplice posto di lavoro il loro. E non è solo un lavoro. Forse, anche un lavoro. In ogni caso hanno scelto di prendersi “cura” degli altri. Non da impiegati ma da persone che si relazionano con altre persone.
Devo qui manifestare che ho un peso sullo stomaco che avrebbe bisogno della loro cura. Ma non chiedo di essere curato perché, con ogni probabilità, il mio si rivelerebbe un malore comune al paziente e al medico. In ogni caso, loro lo subiscono con rassegnazione ed io non lo digerisco. Il malessere in oggetto si chiama “reperibilità”. Nella Sanità pubblica. dopo un turno di lavoro (o meglio di “servizio”) che si sa quando inizia e non si sa quando finisce, prende corpo il tempo dell’imprevisto e dell’imprevedibile. Si gioca alla “sorpresa”. Che, spesso, arriva durante la notte. In questi giorni per i medici dei nostri ospedali la “reperibilità” è una attività molto usata. E i nostri medici devono necessariamente mantenere una salute di ferro.
La coppia di cui sopra ha due figli. I ritmi dei giorni di questi figli sono segnati anch’essi dal gioco della ”sorpresa”. Ma a loro piace giocare. E, per loro natura, impongono di giocare anche ai… nonni. Perciò odio l’istituto della “reperibilità”. E, ancor più (ma molto di più), odio il coronavirus. Questa roba odiata, in questo periodo, è abbinata alla chiusura delle scuole. La conseguenza inevitabile è che i ragazzi devono restare in casa tutto il santo giorno con l’aggiunta inseparabile della notte. Ed anche gli insegnanti restano fuori della scuola. E alcuni di loro hanno lasciato città del nord e sono tornati al profondo sud. Solo il Sicilia -tra insegnanti ed altri lavoratori emigrati- gli sfollati hanno superato le ventimila unità.
Il dramma di queste ore ha provocato in me tre interrogativi che si sono trasformati in tre tormentoni:
1. Perché da anni i nostri ospedali mantengono una forte carenza di medici e infermieri?
Una nota di ANAAO Assomed ha rilevato che oggi mancano oltre ottomila medici e che nel 2025 si arriverà a una carenza di 16.500 medici specialisti nel settore pubblico. Ma lo spettro più minaccioso è segnato dal pensionamento che vedrà raggiungere il 50% dei medici in servizio fra circa cinque anni. Un’altra cifra rilevante riguarda i medici che espatriano dall’Italia che negli ultimi dieci anni ha superato le diecimila unità.
Per quanto riguarda gli infermieri, cito solo il quotidiano “la Repubblica” che, nel numero del primo gennaio di quest’anno, ha pubblicato un articolo che iniziava con queste parole: “IN ITALIA mancano 50.000 infermieri. E’ quanto emerge in questo primo giorno del 2020, anno in cui l’Oms ha deciso di celebrare il lavoro di infermieri e ostetriche, ma anche le difficili condizioni che questi professionisti devono spesso affrontare”…
2. Perché i nostri conterranei che lavorano al nord hanno deciso di tornare nel profondo sud in questo momento in cui ogni spostamento diventa un pericolo? Non si sono resi conto che la loro sofferenza per il blocco del lavoro sta causando la sofferenza di tutta la loro regione di origine. In cui risiedono i loro cari.
3. Perché non ci rendiamo conto che bisogna evitare di muoversi da casa? In questi giorni ogni presunta furbizia può generare l’amara possibile diffusione di un contagio.
Dopo i tre tormentoni pubblicamente confidati, ritorno alla presenza dei medici del discorso iniziale. Mi pare opportuno evidenziare che hanno tanto bisogno di essere presi in considerazione.

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Anzitutto dalle Istituzioni. Perché li ritengano così indispensabili da lasciarli affiancare da altri colleghi. Il che richiede una riforma sanitaria che salta al primo posto tra le necessità del Paese. Necessità che emergono chiaramente in questi giorni di necessarie e insostituibili presenze.
Ma l’argomento coinvolge tutti noi possibili “pazienti”. Ogni buon medico sa bene che la prevenzione è sempre la prima cura. Se vogliamo essere solidali con i nostri medici, diamo loro una mano impegnandoci in ogni tipo di prevenzione. E, quando lo riteniamo possibile, diamo loro almeno un sostegno morale. Aiutiamoli in qualche modo i “nostri” medici. Talvolta anche… impegnando nel gioco della vita i loro figli.