RECENSIONE “DATE DA MANGIARE AI PESCI”, IL LIBRO DELLO SCRITTORE ACESE SALVO CAVALLARO.

 A cura di Maria Cristina Torrisi

L’autore è sempre presente nei contesti descritti e ogni personaggio rappresenta la sua stessa persona o, per meglio spiegarci, la parte più intima di sé: così si svela percorrendo i viaggi della sua coscienza, della mente, del cuore, dei desideri.

PESCI

I racconti di Salvo Cavallaro possono benissimo trovare accoglimento in una citazione che lo stesso autore del libro “Date da mangiare ai pesci” (Edizioni Carthago), ha inserito tra le pagine del suo lavoro: “ Un viaggio non inizia quando si esce né quando si fa ritorno. In realtà inizia molto prima e mai finisce davvero” (In viaggio con Erotodo di Ryszard Kapuscinski).

In quattro episodi, quattro viaggi diversi, seppur narrano esperienze differenti, convergono tutti nello stesso punto, attraverso i pensieri profondi e dotati di filosofia del Cavallaro. In sintesi, l’autore parla di emblematici elementi; denuncia un malessere sociale che coinvolge i giovani d’oggi costretti al sacrificio della solitudine e dell’emigrazione, senza un futuro solido; denuncia per sensibilizzare le coscienze. E il suo viaggio, ricerca interiore e voglia di esplorazione, evoluzione non solo cognitiva ma anche spirituale, è anche un mezzo per “evadere”. Quindi il viaggio non è altro che il sogno e il mezzo per costruire un futuro diverso ( seppur ancorato alla propria terra d’origine) che, nel “modus pensandi” del Cavallaro, spesso si insegue nel divario: “nulla è come appare e ciò che appare non è…”.

L’autore è sempre presente nei contesti descritti e ogni personaggio rappresenta la sua stessa persona o, per meglio spiegarci, la parte più intima di sé: così si svela percorrendo i viaggi della sua coscienza, della mente, del cuore, dei desideri. Sembra quasi rimanere inghiottito da un mondo parallelo, uno “stargate”, un dispositivo immaginario avente il compito di aprire la porta di quell’ignoto che porta alla conoscenza, verso un’altra dimensione, quella del viaggio…

Quattro racconti, profondamente suggellati da un risvolto psicologico di grande rilevanza: nel primo, “Date da mangiare ai pesci”, si descrive un comune viaggio fatto di condivisione e fratellanza. Ma è comunque un viaggio d’evasione da un mondo a cui ormai si appartiene e su cui sono state messe radici, tanto che lo scrittore-viaggiatore-sognatore è come se si sdoppiasse da un lato per “seguire” il sogno della sua evasione (del suo futuro), dall’altro per “inseguire” le proprie certezze: <<Lasciai un biglietto all’ingresso con su scritto: disinserire antifurto, annaffiare piante, dare da mangiare ai pesci e reinserire antifurto. Con dare da mangiare ai pesci sottolineato due volte avrebbero capito che ci tenevo>>.

Un neo laureato in legge intraprende un viaggio in quel di New York con i suoi amici di sempre. Nel racconto emerge il classico humor del Cavallaro, che s’imprime con intelligenza e con il sottile stile inglese. Un viaggio comune ha il potere di divenire ricco di significati perché interiorizzato da riflessioni, condivisioni, stati d’animo, amicizia fraterna. E un viaggio raccoglie sempre un’importante esperienza nella vita di ogni uomo: <<Tornai a casa sicuramente trasformato, probabilmente rinato>>. In tal caso, cambia anche l’ottica dell’esistenza stessa: <<La mia casa adesso mi sembrava minuscola>>.

Ne “Il viaggio” emerge il malessere dei giovani d’oggi, aggrappati al nulla se non all’unica certezza della solitudine. E’ un viaggio fatto di speranza ma anche di avvilimento per le rinunce affettive che si è costretti a fare nella vita. In questo caso, si tratta di un viaggio fantastico in cui l’eroe è un astronauta in missione sulla luna. E in questa missione emergono riflessioni esistenziali superiori anche al primo racconto. E’ come se il Cavallaro perpetuasse nei suoi racconti questi viaggi fatti di tappe evolutive. Crescendo il grado di emozioni cresce anche la nuova consapevolezza: il sacrificio. Ed ogni viaggio lascia sempre qualcosa da accudire: se prima erano i pesci, oggi vi è un figlio, un figlio di cui non si potrà godere né dei primi passi né dei primi vagiti né, tantomeno, dei primi gesti. Si tratta di un favoloso viaggio d’introspezione: è inoltre l’analisi del proprio “io”, di chi siamo veramente e a quale mondo e pensiero apparteniamo realmente.

Ne “La sindrome Stanislavsky” il mal di vivere giovanile può tramutarsi in un gioco pericoloso, aggrappato a pericolosi sogni capaci di impadronirsi della nostra stessa persona, tanto è il desiderio di evasione. In fondo, è ciò che accade al personaggio principe del racconto che sfoga in una sua lettera il viaggio della sua mutazione, attraverso l’esercizio d’immedesimazione del metodo di “personificazione e riviviscenza” che lo renderà ad essere un’altra persona.

Infine, ne “Il volo del calabrone” il viaggio è intrapreso attraverso gli occhi di un ragazzino che segue il profilo di una persona di cui scoprirà più tardi la vera identità. Gli elementi per condurre il viaggio sono i seguenti: l’immaginazione, la pianificazione, la scelta, l’esperienza e la condivisione. E’ anch’esso un viaggio per affrontare le proprie incertezze e ritrovare se stessi. E’ un percorso alla ricerca della propria identità spesso chiusa dentro un corpo troppo ingombrante e sovente costretta ad adattarsi agli altri per trovare il compiacimento esterno che dona un falso, breve, illusorio stato benefico.