Charles Baudelaire, d’estro vagabondo viene dai confini del mondo. Dopo 162 anni, tra realtà e fantasia

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Memorie di un personaggio
A cura di Rosalda Schillaci

 

“Les Fleurs du Mal”, l’opera più famosa del poeta Charles Baudelaire, (1821-1867), continua a riservare ancora sorprese. Dopo 162 anni dalla prima pubblicazione, accadono effetti misteriosi e magici, trasportati nel tempo. I magnifici ingredienti di una storia, rendono sacri termini di un’agnizione profonda e rivelatrice.

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“O Bellezza, da dove vieni, dal cielo profondo o
sorgi dall’abisso? […]
Nell’occhio hai l’aurora ed il tramonto […]
Ma tu sorgi dal nero abisso oppure scendi dalle stelle? […]
-Inno alla Bellezza –

La scoperta è movimento avvolgente. Magnifico esempio di Lazzaro risorto. Domina una calligrafia che si dispiega nella realtà brulicante di sorpresa.

“Ricordati che il tempo è un avido giocatore
che vince senza barare, ad ogni colpo! Questa è la legge. […]
-L’orologio-

Non vince il tempo su Charles Pierre Baudelaire, poeta, scrittore, critico letterario, critico d’arte, giornalista, filosofo, saggista e traduttore.
Nessuno come lui ha saputo guardare al mistero della vita con tanta suggestione, al valore della bellezza folgorante e di infinite miserie. L’irrequietezza nel poeta parigino si manifestava e celebrava nella solitudine, quando l’amarezza scaturiva dal distacco, dalla superficialità della società che gli ispirava “il disgusto e l’orrore universale”.
Tuttavia l’atto solitario richiede almeno un testimone per suggellare la grandezza autentica, perché l’indifferenza, la solitudine, l’opportunismo, il cinismo, avvelenano con mostri senza tempo.

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Venne segnato dalla clamorosa miopia di chi non recensì, di chi fu avaro di attenzioni come l’amico Sainte-Beuve che passò la vita a fare complimenti a tanti scrittori senza talento e fece passare sotto silenzio un capolavoro come “I fiori del Male” come giustamente sottolineò Proust.
Vide il proprio testo, sequestrato dalla censura, bollato come pubblicazione oscena. Fu condannato, a pagare 300 franchi di multa e a cancellare sei poesie, dallo stesso accusatore che aveva pronunciato la sua requisitoria contro “Madame Bovary” di Flaubert.
Tutto questo divenne in lui una ferita profonda. Insieme al fatto di non essere riconosciuto dalla società vi fu il legame lacerante con la madre Caroline Dufays al cui giudizio egli rimase profondamente legato. Inseguito dai creditori e quasi sconosciuto ai suoi contemporanei e alla critica ufficiale, – solo due poeti ventenni scrivono di lui su una rivista parigina: Stéphane Malllarmé e Paul Verlaine, ma lui informato risponde che i giovani gli fanno una paura cane e l’unico desiderio è rimanere da solo, – poi arriva a tentare il suicidio. Nel 1866 venne colpito da un ictus con emiplegia e afasia, rimanendo paralizzato nel lato destro del corpo. Baudelaire si spense, dopo una straziante agonia, il 31 agosto, a soli 46 anni, per un nuovo ictus con emorragia cerebrale. Venne seppellito al cimitero di Montparnasse, Parigi.
Le sue opere e la sua memoria sono state riabilitate solo nel 1949, quando la Corte di Cassazione francese decise di revocare la condanna ricevuta in vita.

Oggi 21 novembre 2019 nasce quasi un racconto a cui seguirà, in basso, la notizia che me lo ha ispirato. Così la mia voce vuole essere cronista fantasiosa:
<< Forse è uno scricchiolio di un mobile pieno di polvere, forse l’attesa di tanti scatoloni con le bocche spalancate. Il proprietario di una piccola biblioteca, in un appartamento di Parigi, è morto senza lasciare eredi. Si sta procedendo a catalogare con gesti meccanici, svogliati, attraversati da una lama di gelo. È una giornata grigia come può essere un cielo parigino smarrito tra le nuvole. I movimenti cercano metodo tra gli oggetti ormai alla rinfusa. Aggredire il disordine, mentre il pensiero dei lavoranti corre a disegnarsi sui volti che sembrano pensare infastiditi e beffardi: a chi aveva tanto, troppo, e adesso non ha portato nulla con sé. Ha accumulato, tuttavia è stato mai felice? Non c’è tempo per darsi risposte, bisogna procedere dimenticando lo spasmo di muscoli, ronzii di pensieri fastidiosi. Ci sono punte aguzze di vetro sul pavimento, le voci della città s’infiltrano senza invito, incuranti, sgraziate, stridule. È tutto nella norma: la noia ristagna come pozzanghere in cui non ci si diverte più. I piedi adesso non sguazzano nel gioco, occorre lavorare per vivere. Chi è l’uomo che ha voluto conoscere la vita in tutte le sue forme, dalla più pura alla più perversa? L’uomo in cui angoscia e voluttà sono stati aspetti della stessa verità senza speranza. La noia – lo spleen, (la milza, l’organo che secondo la medicina antica secerneva la bile nera, responsabile della malinconia) – la depressione, malattia paralizzante che si installa nell’anima come un popolo di ragni, che la schiaccia come un coperchio di una cassa da morto, che la opprime come un’umida cella, in cui un pipistrello impazzito sbatte le ali. Allegorie e simboli, l’unica possibilità per raccontare la morte dell’anima. Il nome affiora si accorda alle sensazioni di piacere e complicazioni sulle labbra: Charles Baudelaire. Il nome dal frontespizio di un libro, uno tra i tanti libri sugli scaffali di legno pregiato, richiama echi e sfumature da soddisfare. Le mani lo afferrano. Gli occhi incominciano a leggere. Il cervello elabora, ricorda, desidera ricevere… La donna lo osserva in una fotografia dalla posa affettata, indossa un abito nero, un ampio colletto bianco e un papillon di seta. La scuote lo sguardo freddo e intenso su un volto precocemente invecchiato. Ma adesso incominciano a scorrere le parole scritte sui fogli ingialliti. “Introduzione: l’opera di questo grandissimo poeta che visse intorno alla metà del secolo scorso è alla base della poesia moderna, anzi il perno sul quale la poesia ruota per diventare moderna. Precursore e profeta del simbolismo, è ancora più avanti di questo movimento per la sua straordinaria capacità di cogliere i moti più segreti della sensibilità e della coscienza, che saranno tipici del novecento. I fiori del male sono 130 liriche circa di cui Victor Hugo scrisse ‘risplendono e abbacinano come stelle’. Capolavoro assoluto, è un punto di riferimento d’obbligo per chiunque ami e studi poesia.” La donna con il libro in mano si ferma, tiene le dita tra le pagine, si chiede quanti nel 2019 scrivano nel mondo poesia? Troppi… quanti la leggano… Non si sofferma oltre, il cuore batte all’impazzata, la copia che sta sfogliando porta la data di pubblicazione del 21 giugno 1857: è una prima edizione! Nella prima pagina c’è una dedica speciale a un amico: Gaston de Saint-Valry. Deve cercare, incomincia a scorrere freneticamente, ma non vuole sciupare il testo prezioso. Eccola la lirica “Les Bijoux” – i gioielli – bollata come oscena, esclusa, censurata nelle edizioni successive, la scopre a pagina 53. Il cuore non vuole saperne di rallentare, arriva in gola e strozza l’urlo che vorrebbe emettere alto. Ci sono ben quattro versi inediti, aggiunti, scritti a mano da Baudelaire! >>

Questo è il racconto – frutto di fantasia nello svolgimento – ispirato a un fatto accaduto realmente nella sostanza quest’anno.
Della quartina censurata si era già parlato nel 1920 quando il critico – importante studioso del poeta francese – Yves-Gerard Le Dantec con una lettera, datata 20 febbraio, aveva provato a convincere il proprietario dell’importanza che rappresentava la scoperta di una strofa inedita del grande poeta e ne menzionò l’esistenza nelle note e variazioni delle Pléiade del 1961.
Ed ecco la notizia di cronaca, un piccolo trafiletto che ho letto: “Venerdì, 22 novembre 2019, la casa d’Arte Valorem, sotto la direzione di Myrtille Dumonteil proporrà all’asta di Drouot un esemplare unico dell’edizione originale de “I fiori del male” di Charles Baudelaire. La base d’asta partirà da un valore stimato tra i 60 e gli 80 mila euro”.
Mi chiedo stamattina: quanto vale un poeta, un albatro, un poeta maledetto? Per Baudelaire la poesia, “atto puro, è stata sudore, tecnica, dovere, frutto di una voluta impersonalità: il poeta uno scienziato capace – grazie al suo valore formale e alla paziente costruzione di versi – di estrarre la bellezza (l’oro), quasi come Dio che crea l’uomo dal fango. Ripenso al titolo: “I fiori” intesi come il frutto della poesia, capace di “estrarre bellezza dal male” in cui è immerso l’uomo. Fiori velenosi e attraenti, ossimoro, quando le realtà più basse della natura possono impadronirsi della bellezza e innalzarsi al sublime. Magia evocatoria imprime nella parola poetica, tensione irrisolta verso l’ignoto, l’infinito. Immaginaria parabola tra l’apparizione nel mondo e il tuffo nell’Ignoto. Male di vivere del poeta girovago tra case degradate, prostitute, poveri, ubriachi. Un escluso fiero di esserlo, una persona qualsiasi persa tra la folla, dedita ai vizi comuni è l’esistenza baudelairiana”.

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Concludo con i versi dell’inedita strofa autografa, ritrovata. Sicuramente un inestimabile valore non soggetto a mere quotazioni di mercato. Il mondo reale nella frattura è privo di ideali e si diventa esuli, vagando in un mondo ostile e una inutile ricerca di purezza. Accade ogni tanto, un miracolo e Lazzaro “d’estro vagabondo viene dai confini del mondo” tra i figli di Caino e Abele. Ma forse nell’ultimo viaggio, si trasformerà, in un Cristo ancora una volta messo in croce dagli adoratori del “dio dell’Utile” contro cui Baudelaire spese la vita intera a lottare.

“E allora fui pieno di questa verità:
che il miglior tesoro che Dio concede al Genio
è conoscere a fondo la Bellezza terrestre
per far sgorgare il Ritmo e l’armonia”.

“Et je fus pleine alors de cette Verité:
Que le meilleur trésor que Dieu garde au Génie
Est de connaitre à fond la terrestre Beauté
Pour en faire jaillir le Rythme et l’harmonie”.